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Autore Topic: LA MORTE BUSSA DUE VOLTE I PARTE  (Letto 2065 volte)

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LA MORTE BUSSA DUE VOLTE I PARTE
« il: 13 Giugno 2010, 13:38:37 pm »
Giovedì, 30 Aprile, ore 13




<< Ho detto nessuno si muova! Non sono stato chiaro? Che nessuno provi a fare una mossa sbagliata o inizio a sparare, e comincio da questo pupazzo in giacca e cravatta!>>.
<< Non c’è bisogno cerchi di stare calmo>>.
Mormorii di paura risuonavano per tutto il grande androne della banca. Sembravano ancora più agghiaccianti, moltiplicati dall’eco del tetto alto dell’edificio.
L’uomo con la pistola sudava.
Stringeva nella sinistra la sua M9 semiautomatica. Ormai c’era dentro, non poteva più tornare sui suoi passi. Tremava per la tensione. Ma adesso doveva proseguire. Doveva dare una dimostrazione a tutti.
L’uomo in doppio petto allargò le braccia atterrito. Era seduto a terra come tutti gli altri. Aveva tra le mani un assegno sostanzioso da depositare. E ora se ne stava immobile, la schiena contro il freddo metallo, ansante di terrore. Le gambe sembravano inermi, distese di fronte a lui, come un prolungamento di pezza del suo corpo.
La donna con la camicetta rosa cominciò a piangere. I suoi singhiozzi risuonavano nella sala silenziosa, monopolizzata da quell’uomo rasato che non voleva farli tornare a casa. Si passò le mani nei capelli biondi che iniziavano ad incollarsi alle guance intrise di lacrime. Le scoppiava la testa. La sua mente le suggeriva di pensare ad altro ma c’era come una sorta di muro. Voleva solo tornare a casa.
L’uomo con la pistola era distante da tutto e da tutti.
La sirena della polizia aveva riempito la strada antistante la banca. Decine di passanti si erano accalcati per vedere la scena che tante volte li aveva tenuti incollati al televisore nei telefilm.
Gli agenti uscirono dalle loro automobili e circondarono l’edificio. Si sentiva lo scalpitare dei loro piedi sull’asfalto. Quando si udì la voce al megafono, l’uomo in doppio petto scattò in piedi e corse verso la porta.



Lunedì, 27 Aprile




Il sole tramontava docile su Legnano, con la dolcezza che solo aprile sa regalare. Come una carezza l’ombra iniziava a divorare l’asfalto sotto le macchine impigrite.
Donatella Marchesi stava preparando la cena. Sul viso il sorriso della beata ignoranza. Viveva in un piccolo appartamento di un’umiltà spartana e agreste.
Non si era mai premurata di ottenere un titolo di studio che fosse superiore all’istituto professionale. Il suo obiettivo era sempre stato solo quello di sposarsi. Perché no, con un uomo ricco e bello. Ma il destino era stato beffardo e l’aveva fatta restare incinta di un uomo disoccupato, madre a soli ventitré anni. Ne era innamorata tanto da dimenticare per sempre i suoi sogni da adolescente. E aveva abbracciato con entusiasmo la loro vita fatta di stenti sin dall’inizio. Era stata costretta a fare la donna delle pulizie negli studi dentistici. Alberto era riuscito ad ottenere un posto di operaio in una fabbrica di barattoli di vetro.
Dalla finestra del loro quarto piano vedeva i suoi due bambini giocare di sotto, nel cortile, insieme ai figli degli altri operai. Milano era più che mai ghettizzata.
Nonostante tutte le mancanze che avevano caratterizzato la sua vita, lei ne era molto soddisfatta. E, cosa più importante di tutte, era felice.
Il pollo rosolava nel forno, mentre lei lavava l’insalata e tagliuzzava carote e finocchi.
Alberto stava facendo degli straordinari. Così Donatella era in casa da sola. Non amava restare senza la compagnia rumorosa dei suoi figli e senza la placida serenità dell’uomo che aveva sposato.
Quando tutto fu pronto, infatti, scese i gradini della palazzina, ansiosa di poter giocare un’oretta coi suoi bambini.
<< Pronti col pallone? Su, la mamma si mette in porta!>> .
E corse saltellando come una ragazzina verso la porticina di ferro che i bambini usavano come rete. << Andiamo! Non penserete di fare goal tanto facilmente?!>>
<< Mamma ma tu non sai giocare!>>, suo figlio Mariano urlò ridendo felice.
Aveva dieci anni ed era bello. Uno di quei bambini che avrebbero sicuramente preso per le fiction in televisione. Con i suoi capelli biondi che gli ricadevano davanti agli occhi. Le fossette ai lati della bocca lo rendevano simpatico.
<< Pensate a tirare. Parlate troppo. Vi sfido bambini! Andiamo Saverio comincia tu. Cercate di non tirare troppo forte, non fate male alla mamma>>.
I bambini, estasiati dal coinvolgimento donna, cominciarono a saltare e a inseguire il pallone per calciarlo verso la porta. Saverio era il suo secondo bambino. Era completamente diverso dal fratello, del quale era più piccolo di tre anni. I suoi capelli erano neri come quelli del padre, da cui sembrava aver preso anche il carattere timido e pacato. Gli occhi verdi brillavano contro il tramonto.
<< A me, a me!>>, urlò uno dei bambini. In totale erano in otto, e ben presto sarebbe arrivata verso la sventurata Donatella una selva di pallonate festose.
Ma lei era la prima ragazzina e sembrava divertirsi più di tutti.
<< Neanche un goal riuscite a farmi? Andiamo, forza!>>
A quel grido i bambini urlarono ancora di più. Tutto il palazzo la adorava. Semplicemente perché era la persona più dolce e più gentile che si potesse desiderare di incontrare.
Saverio ci sapeva fare veramente col pallone. E, quando riuscì a impossessarsene, scaricò un sinistro che la madre non riuscì neanche a vedere.
In un secondo tutti i bambini gli erano attorno, festeggiandolo.
Quando si fecero le otto, Donatella prese i bambini per mano e si avviò verso la casa. La cena era già pronta e andava soltanto riscaldata. Salendo le scale si avvertiva forte uno strano odore di bruciato. Pensò che qualcuno dei vicini avesse cotto troppo la cena. Sorrise pensando al vecchio Buontempi del primo piano che bestemmia di fronte alle sue costolette completamente incenerite.
Però man mano che saliva verso il quarto piano la puzza aumentava. Iniziò a spaventarsi. Ogni gradino la rendeva più sicura che qualcosa era successo in casa.
Quando aprì la porta l’aria era veramente irrespirabile. C’era fumo nell’ingresso.
<< Bambini, aspettatemi qui. Non entrate per nessun motivo finche non ve lo dice la mamma va bene?>>. I bambini fecero cenno di sì con la testa. Ma le loro facce erano spaventate. Entrò in casa.
L’origine del fumo era chiaramente la cucina. La maniglia era bollente.
Passò entrambe le mani sulla porta ma le ritrasse istantaneamente per il calore. Aiutandosi con il bordo della maglietta, riuscì ad aprirla. Quello che vide la inorridì a tal punto da lasciarsi scappare un urlo che strozzò a malapena con la mano.
La sua cucina era avvolta dalle fiamme. Nel panico non riuscì a ricordare se avesse spento il fuoco del fornello.
Senza che se ne accorgesse, aveva richiuso la porta alle spalle, forse istintivamente per proteggere i bambini da quella vista che li avrebbe senz’altro sconvolti.
Si ritrovò così, circondata da lingue di fuoco che leccavano le pareti minacciando d’inferno anche lei. Spegnere le fiamme non era possibile. Doveva soltanto fuggire.
E cercare aiuto. Chiamare i pompieri.
Ma quando si voltò e afferrò la maniglia, questa si sfilò dalla serratura e le rimase in mano. Dio quante volte aveva chiesto al marito di ripararla! In preda all’ansia di restare incenerita insieme ai suoi utensili, cominciò a tirare pugni alla porta.
Era bloccata all’interno. Faccia a faccia con il fuoco e con la morte.
Si stagliò spalle alla porta, come se avesse voluto passarci attraverso. Prese una tovaglia per allontanare le fiamme, ma non poteva arrivare al lavandino per bagnarla e così come risultato ottenne che si incendiò anch’essa. Il fumo la stava letteralmente soffocando, invadendole i polmoni e annebbiandole gli occhi e la mente.
Si sedette a terra, ginocchia strette al petto e testa raccolta tra le braccia. Ormai consapevole che la morte sarebbe arrivata di lì a poco.
Pregò di essere già cadavere quando le fiamme l’avrebbero abbracciata in un lampo di luce e trasformata in cenere. Le lacrime le bagnarono il viso e gli occhi cominciarono a bruciare di quella luce rossastra.
L’inferno non era mai stato così vicino. Le fiamme si avvicinarono con una folata.
Donatella non poteva sentire il trambusto che ormai si era scatenato in tutta la palazzina, di un nugolo di vicini riversati nel cortile sotto la sua finestra. Che urlavano ed indicavano.
Né potè sentire i passi nel corridoio che si avvicinavano.
Quando la morte era ormai cosa certa, e lei stava già pensando ai suoi bambini che avrebbe lasciato da soli, la porta andò in mille pezzi.
Sull’uscio frastagliato di legni spezzati comparve Alberto. Tra le braccia aveva un mostro rosso con cui aveva fracassato la porta. Senza esitare l’uomo afferrò la moglie per la spalla e la fece rotolare fuori, ferendola  ad un braccio sui legni acuminati della porta infranta. Si ritrovò a terra nel corridoio a osservare il marito ammazzare le fiamme che avrebbero voluto ucciderla. La schiuma bianca salvifica coprì ben presto ogni angolo della cucina, di cui non rimase che un grottesco velo nero coperto di panna.
Ma erano salvi.
Soltanto allora si udirono emergere dal rumore della calca le sirene urlanti allarme del camion dei vigili del fuoco. Salirono compatti ma trovarono un nemico già domato e ucciso, e una coppia, sporca di schiuma e fuliggine, seduta per terra, braccia nelle braccia, esultando che quello non sarebbe stato il loro ultimo abbraccio.
<< Non so come avrei fatto senza di te>>
<< Io invece senza di te sarei uno scheletro carbonizzato e mal cotto>>.
Risero per scaricare la tensione di quegli ultimi interminabili minuti.
<< I bambini? Dove sono i bambini?>>, volle sapere lei.
<< Al sicuro non ti preoccupare. Li ha presi la vicina, li ha portati di sotto>>.
E mentre i vigili del fuoco compivano i loro rilievi sul luogo dell’incendio, riscontrando che a causare la propagazione delle fiamme erano stati gli stracci lasciati troppo vicini al fuoco.
Alberto e Donatella scesero le scale del palazzo. Era affamata del fresco della sera di primavera sulla pelle. L’ultimo gradino e poi fuori, dai suoi bambini. Verso l’aria pura e verso la vita.
Perché il destino, per quel giorno, aveva deciso che non era la sua ora.


Martedì, 28 Aprile




Carlo Alberto de Renziis era un uomo fortunato. A soli quarantadue anni poteva definirsi uno dei maggiori imprenditori lombardi. Aveva iniziato come venditore di auto in un vecchio centro di usato nella periferia di Rho. Grazie a lui le vendite erano aumentate a dismisura. Grazie alla sua abilità era stato trasferito in una concessionaria dell’Alfa Romeo al centro di Milano. E anche lì aveva venduto circa trenta auto al mese. Una media incredibile.
Il suo percorso era stato costellato di premi e provvigioni, fino ad avere la possibilità di aprire una concessionaria propria nel quartiere greco. E da lì aveva fatto soldi a palate. Fino a possedere ben quindici concessionarie sparse per la Lombardia, due in Piemonte e tre in Veneto.
Ma i soldi lo avevano rovinato. Era diventato come quei palloni gonfiati che derideva tanto da ragazzino. Montati. Sempre in cerca di una donna per fare sesso veloce. Affrontava il mondo a testa alta, con quel fare di superiorità che sfocia nella tracotanza.
Quella sera aveva deciso di andare come sempre nel suo night club. Solite ragazze bellissime, modelle, imprenditori. Insomma tutta la Milano che conta in un certo giro.
Avrebbe dovuto riposare. Era qualche giorno che accusava un dolore al petto. Leggero, niente di preoccupante secondo lui. Ma decisamente stava diventando più opprimente. Ma come dire di no ad una serata del genere?
Frastornato dai bagordi della sera prima, aveva deciso però di non rincasare troppo tardi.
Aveva indossato un abito di tasmania, nero gessato. Come al solito i capelli erano buttati indietro col gel. Cosa che gli dava vagamente l’aria del mafioso russo. Non indossò la cravatta. Troppo formale per il tipo di serata che lo attendeva.
Impeccabile come sempre scese dal suo attico di piazza della Scala, costatogli più di un milione di euro un anno prima. Raggiunse via Turati in taxi e poi entrò nel suo night club. Lo aveva acquistato da un suo cliente che era in profonde difficoltà economiche, e lo aveva pagato un terzo del suo valore. Cogliere le occasioni era il suo forte, e certo non si sarebbe mai fermato di fronte ad una umana pietà per un uomo ormai al limite del baratro. Lo aveva liquidato, convincendolo che gli stava facendo un favore ad accollarsi quella bettola che non fruttava un centesimo.
E invece, nell’arco di due anni quel locale, ribattezzato Lolita, era diventato uno dei più alla moda di tutta Milano. I clienti erano rigorosamente selezionati all’ingresso.
Ma non c’era mai bisogno di allontanare qualcuno perché, visti i prezzi, non ci si avvicinavano persone che non avessero un reddito da rendere difficile leggerne le cifre. Aveva scelto di usare per gli spettacoli di streap ragazze dai diciotto ai venti anni. Questo solo perché non gli era consentito usare le minorenni. Altrimenti il nome del locale sarebbe stato ancor più azzeccato. E questa cosa attirava tanti clienti di ogni ramo, dal politico al giudice, dall’imprenditore al finanziere. La discrezione per il dopo spettacolo era naturalmente garantita.
Insomma gli affari andavano a gonfie vele anche in questo settore.
A passo cadenzato dalle note di New York New York, che risuonavano solo nella sua testa, si lasciò alle spalle il resto di strada che lo separava dall’ingresso, alternando una piroetta ad un inchino. Il suo spettacolo finì quando valicò la porta di accesso, salutando con un cenno John, l’enorme buttafuori americano.
Ma più che essere un buttafuori, John provvedeva a far entrare le persone: mai si era verificato nulla di violento nel prestigioso night.
Di martedì da mezzanotte alle due suonava un’orchestrina che dava un’immagine veramente elegante al locale. Era costituita da cinque musicisti in rigoroso abito da sera nero e da un vocalist. Aveva una voce profonda, forgiata ancor più dalle venti sigarette al giorno che fumava ormai da venticinque anni.
Poi dalle due iniziavano gli streap. Ragazzine danzanti sul palco, per finire il loro spettacolo seminude. E poi a letto con qualcuno dei facoltosi clienti che frequentavano abitualmente il locale.
Non era una sala grandissima. Dal soffitto scendevano alcune palle d’argento per creare quell’effetto di scintillio tanto cool nei locali americani. C’erano pochi privet per i clienti più affezionati e più bisognosi di privacy, che veniva garantita da un sipario che nascondeva alla vista.
Non appena Carlo fu entrato nella sala principale, percorrendo il pavimento nero, l’orchestra iniziò immediatamente con la sua canzone preferita…
Start spreading the news
Le note avvolgevano tutta la grande sala. Stava pregustando quella spogliarellista diciottenne che si sarebbe portato a letto qualche ora dopo. Polacca, bionda come una dea e turgida come una statua. L’ingenuità sensuale che solo le ragazze dell’est potevano avere.
Già ad un tavolino del suo privet c’era ad attenderlo un giovane elegante, il suo collaboratore fidato. Appena lo vide si alzò e gli fece cenno di avvicinarsi. Carlo aveva già il sorriso stampato sulle labbra perché aveva intuito il regalo di quella sera.
i’m leaving today
Gli pizzicava il naso dalla voglia, come la sensazione di acquolina che invade la bocca di fronte a una torta prelibata.
i want to be a part of it, New York, New York
L’aria era un po’ viziata dal chiuso. Faceva fatica a respirare ma quasi non se ne accorse. Cane famelico in vista del suo osso da sgranocchiare.
These vagabond shoes are longing to stray
Una fitta al petto un po’ più forte di quelle dei giorni passati. La mano si fermò sulla camicia candida. Occhi stretti dal dolore.
right through the very heart of it
La voce profonda del cantante gli accarezzava le orecchie, circondandolo di note amate. Il dolore passò. Scosse la testa come per allontanarlo ancora di più.
I wanna wake up in a city that doesn’t sleep
Si aggiustò la giacca con la solita spavalderia e riprese il percorso verso il suo angelo custode. Gli appoggiò una mano sulla spalla e si chinò per parlargli all’orecchio.
<< Che hai di buono per me?>>
<< Una polverina magica. Candida e ovattata per le narici di un re>>.
and find i’m king of the hill
<< E il tuo re te ne sarà tanto grato>>. Due pacche sulla spalla e poi si accomodò accanto a lui, chiudendo alle spalle la tendina del privè. Da un taschino l’uomo tirò fuori una bustina da cui traspariva la promessa polvere bianca. Carlo si toccò istintivamente il naso, pregustando quella delizia.
Con cura l’uomo gli preparò una striscia su di una piccola superficie di vetro specchiato, a riflettere e raddoppiare la candida visione.
i’ll make a brand new start of it
Carlo arrotolò una banconota da cinquecento euro. Si sentiva potente. Tra naso e dita stringeva più di mille euro. Non resistette più e tirò su col naso in un sol colpo. Sullo specchio non rimase che qualche granello, che si sparse nell’aria come pulviscolo.
if i can make it there I’ll make it anywhere
Rimase qualche istante a godersi l’estatica sensazione che saliva al cervello facendolo fibrillare di piacere. Gli occhi finirono sbalzati in alto.
Ma un istante più tardi la mano era di nuovo sul petto, facendo scintillare l’anello di brillanti sulla luce del faro che penetrava attraverso le tende semichiuse.
Finì a terra, scalzato dalla sedia dal forte dolore. Annaspava contorcendosi.
Un altro calcio al tavolino che cadde fragorosamente.
it’s up to you New York New York

I soccorsi furono repentini, come accade soltanto per pochi eletti. Il profumo dei soldi eccita tutti. Le note erano cessate proprio sull’ultimo rantolo di vita del de Renziis. Ma le scariche elettriche avevano fatto in modo che il suo cuore riprendesse magicamente a battere. Fu portato in ospedale. Nulla di serio. Tanto che uscì stesso la mattina dopo. Pronto a vendere una meravigliosa Porsche a un altro anonimo riccone.
Chi avrebbe voluto vederlo morto avrebbe dovuto aspettare.

Offline Tinuviel

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Re: LA MORTE BUSSA DUE VOLTE I PARTE
« Risposta #1 il: 18 Giugno 2010, 16:27:57 pm »
Cugino a parte gli scherzi....stai diventando bravo...è vero le cose che scrivi sono molto piacevoli da leggere...non appesantiscono..il racconto riesce a prendere il lettore.
Ciò che salta fuori a prima vista è la forte impronta realistica.....è ben trattato l'approfondimento psicologico dei personaggi..riesco ad immaginarli perfettamente quando li descrivi!
Come dice kant le descrizioni possono dar vita ad una sceneggiatura.
Come tu sai questo non è propriamente il mio genere..ma credo che il tu abbia raggiunto un livello alto. Bravo cugino...e seriamente dovresti cercare di pubblicare...sarebbe una bella soddisfazione!! :-* :-* :-* :-*
il poeta si fa veggente mediante un lungo e immenso ragionato disordine di tutti i sensi.........un bacio...Flavia

Offline deco

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Re: LA MORTE BUSSA DUE VOLTE I PARTE
« Risposta #2 il: 18 Giugno 2010, 16:40:17 pm »
ma guarda un po chi mi commenta...e io che m'ero abituato a leggere solo kant...tesò comunque questo è il mio secondo racconto lo scrissi a gennaio..rivisto e corretto di recente..non li ho pubblicati in ordine..beh si questo racconto è molto sociale, in comune con gli altri ha solo il sangue e l'azione..però effettivamente è molto diverso perchè ci ho messo del sociale..e il romanzo che sto scrivendo è molto su questo filone...sono contento che un po alla volta mi leggi flà...

Offline kant.51

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Re: LA MORTE BUSSA DUE VOLTE I PARTE
« Risposta #3 il: 18 Giugno 2010, 16:45:32 pm »
visto che ho compagnia?  ;)...e che compagnia! :-d
cKappa ^*°^*°^*°^*°^*°^*°^*°^*° Sì che ti voglio bene, bene davvero...

Offline Tinuviel

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Re: LA MORTE BUSSA DUE VOLTE I PARTE
« Risposta #4 il: 21 Giugno 2010, 19:52:04 pm »
Ma come non potrei leggere le cose del mio cuginetto???
Certo che ti leggo..un pò alla volta..ma ti leggo  <3 <3 <3
il poeta si fa veggente mediante un lungo e immenso ragionato disordine di tutti i sensi.........un bacio...Flavia