Ed ecco in anteprima per voi il primo dei 4 capitoli

. Per gli altri ci vorra ancora un giorno o due...ditemi che ne pensate, potrebbe sembrare molto banale ma tenete presente che ero abbastanza piccola quando ho scritto e pensato tutto questo

. La storia è un po' atipica, non parla dei soliti eroi, dei soliti valori dell'altinca roma. Parla di un giovane arrabbiato e carico di orgoglio che vede nell'arruolamento un modo per riscattare la sua vita, ma quando si spegnerà quest'ardore incoscente giovanile non potrà non riflettere sulla guerra e su tutto ciò che comporta giungendo a conclusioni atipiche, come ho detto prima, che lo porteranno a fare una scelta molto combattuta(che però non vi dico sennò vi rovino il finale...!

)
I
La mia storia incominciò molti anni fa, su questa stessa terra che regge ancora oggi il mio passo, sotto questo cielo terso e profondo che osserva da sempre le mia vita.
Avevo vent’anni quando decisi di cambiare il mio destino, 626 anni dopo la fondazione di Roma feci una di quelle decisioni che influenzano per sempre il cammino della vita.
“…avvertivo le braccia sempre più pesanti ad ogni movimento, le mani incapaci di reggere ulteriormente la presa. Ad ogni mia avanzata, lenta e faticosa, sentivo scivolare copiose lungo la mia fronte, gemme calde di sudore; attraversare le tempie o il naso, trasportate dai peli di barba incolta e gocciolare giù dal mento, cadendo silenziose sulla terra appena smossa dalla zappa.
Quando avvertii ogni più piccolo residuo di forza andarsene via in quella pioggia di sudore, gettai la zappa in un gesto di scherno e mi sedetti a terra.
Incominciò a levarsi un vento lieve e fresco che riportò frescura al mio corpo accaldato, che fece ondeggiare dolcemente le foglie sui rami, muovere l’erba brillante di rugiada come un mare profondo accarezzato dalla brezza.
Mi guardai intorno, guardai il cielo che incominciava a macchiarsi di nubi plumbee, il disco rosso del sole scomparire tra il fondame deigli alberi. Il bosco, che incominciava ad incupirsi, poi la strada ciottolosa per Roma, e infine i campi in alto sulle colline; cosparsi di uomini curvi sul loro lavoro.
Non riuscivo a vedere, dalla mia posizione, la villa del senatore, padrone ormai anche del nostro piccolo appezzamento di terreno.
Lavoravamo per lui in cambio di una piccola parte del raccolto.
Abbassai lo sguardo alla realtà, alla mia piccola realtà; al mio piccolo campo, alla mia piccola vita.
Erano questi i miei pensieri, mentre guardavo il mio lavoro ininterrotto da quella mattina.
Rammentai, guardando la strada per Roma, di mio fratello. Doveva essere sul punto di tornare.
Mi rimisi in piedi per avviarmi verso casa. Entrai nella stanza buia e fui subito investito da una zaffata di aria vecchia e polverosa.
Afferrai velocemente il secchio di legno e mi avvia verso l’uscita. Avvertii, mentre varcavo la soglia, l’eco di un colpo di tosse, forte e secco, provenire dalla stanzetta in cui si trovava mio padre. Lo immaginai rintanato sotto le coperte impolverate, seduto a terra tremante di febbre mentre la malattia lo consumava secondo per secondo.
Mi allontanai con quella oppressione dolorosa che mi avvolgeva ogni volta che ascoltavo un suo debole segno di vita.
Proprio mentre mi avviavo al pozzo vidi la figura di mio fratello, alta e robusta, stagliata all’orizzonte lungo la via pietrosa, che si avvicinava tra i colori caldi del tramonto, nel vento fresco della sera.
-Lucius- gridai mentre raggiungevo, con la gioia semplice di un bimbo, mio fratello che mi veniva incontro.
Carezzavo dolcemente la superficie di legno del tavolo, vedendo danzare le ombre lunghe della mia mano, prodotte dalla luce bassa e calda della candela. Gettai lo sguardo su mio fratello mentre, invano cercava di grattare sul fondo della ciotola un qualche residuo dello scarso cibo che non aveva placato la nostra fame.
Raggiungevamo entrambi quasi la stessa altezza, ma lui era molto più robusto.
Rimasi incantato a guardare il gioco di ombre che si creava sui suoi ricci scuri, che ricoprivano la fronte e la nuca scendendo fin dentro il collo della veste e spuntando sotto le orecchie. Portavamo entrambi i capelli abbastanza lunghi, come tutti i contadini d'altronde, un segno di riconoscimento. In modo che alla nostra vista, tutti i nobili affogati nel lusso e tutti i cittadini ubriachi di presunzione, potessero accorgersi che eravamo solo dei poveri contadini sporchi di terra.
Distolsi lo sguardo dall’acconciatura di Lucius come per scacciare con sprezzo quei pensieri.
Ormai cessato ogni rumore, nella piccola stanza dalle ombre ondeggianti calò il silenzio; spezzato ormai solo dal frusciare dei rami sospinti dal vento, dalle grida lontane nella villa del senatore e dal respirare rauco di nostro padre.
Tornai a guardare il tavolo, provando ad immaginare, mentre avvertivo sulle dita i dislivelli delle venature: mio padre, mentre lo costruiva la sera, dopo una giornata passata con la schiena curva sui campi, e mia madre che lo guardava.
Mia madre morì durante una piccola epidemia di malaria cinque anni fa.
-È tutto pronto- disse con animo mio fratello. Mi risvegliai immediatamente al suono forte della sua voce.
- per il mio matrimonio con Flavia- precisò – è tutto pronto ed organizzato- mentre sul suo volto si accendeva un sorriso sincero di gioia. Non era il primo matrimonio che vedevo, tra poveri contadini innamorati; non era certo da noi fare dei matrimoni solo per interesse.
- Per quando sono state fissate le nozze?- domandai sorridendo.
- alle Idi di Aprile- rispose distogliendo lo sguardo sereno –fra quindici giorni ci fidanzeremo, a Roma. Una volta sposati verremo a vivere qui- terminò tornando a fissarmi.
Sorrisi falsamente di gioia; provavo disgusto per questa e terra e per questa situazione, avevo sperato che mio fratello potesse riuscire ad allontanarsi da tutto ciò, inutilmente.
Tuttavia, la sua letizia mi convinceva che questi pensieri erano solo frutto della mia mentalità, che, dopo anni di ingiustizie, vedeva nell’essere contadini un disonore.
Mi alzai lentamente dal tavolo e mi diressi verso la stanza dove riposava mio padre: Un piccolo rettangolo ricavato in un angolo della casa dal pavimento in polverosa terra battuta.
Alzai lo sguardo verso le mura, illuminate dalla candela tremolante che danzava nella stanza accanto; poi lo abbassai verso quella figura scura e indistinta rannicchiata in un angolo su una piccola branda.
Mentre il tanfo di chiuso e di unguenti secchi mi investiva, mi chinai verso quell’ombra confusa per raccogliere il piatto semivuoto abbandonato al suo fianco. Appena sentii il mio respiro vicino si ridestò dal torpore e si volto verso di me.
Osservai il suo volto raggrinzito e secco, gli occhi stanchi ed opachi brillare di un guizzo fiacco e debole. La sua mano scarna e tremante afferrò la mia e, con evidente fatica parlò -Lucius è tornato?-chiese prima di abbandonarsi ad una tosse convulsa.
-Si- risposi, quando questa si calmò; sentii la sua presa farsi più forte, riprese, guardandomi con gli occhi ormai lucidi di febbre e di lacrime-non allontanatevi ora da me…voglio che siate qui quando sarà il momento- riuscii a dire prima di cedere di nuovo alla tosse.
Liberai il braccio dalla sua presa, -non preoccuparti, riposa ora- dissi mentre incominciavo ad alzarmi, ma fui bloccato dalla sua voce roca e angosciata –Valerio! Aspetta…avvicinati-.
Mi inginocchiai a terra al suo fianco e attesi quella che sentivo sarebbe stata la sua ultima confessione.
-Tu sei ancora giovane Valerio, figlio mio, non hai ancora deciso nulla di quella che dovrà essere la tua vita- abbasso lo sguardo e raccolse una manciata di terra con la mano-ascoltami!- disse alzando il pugno chiuso e facendola scivolare dalle dita. –Ho passato tutta la mia vita su questa terra, da quando ero ragazzo fino a quando ho potuto sorreggermi sulle mie gambe, non ho fatto altro che lavorare questa terra per conto di altri, ho donato tutto il mio sudore a padroni che nemmeno ho mai visto...- continuò mentre la tensione andava crescendo, poi con un gesto improvviso, afferrò la mia tunica e avvicinandomi a se disse- può esistere vita più vergognosa della mia?-chiese al colmo della disperazione con gli occhi rigati dalle lacrime. –no padre…io…non c’è nulla di vergognoso in questo…-farfugliai tentando di trattenere le lacrime, -avete tutto il diritto di provare vergogna per me…così vile da non tentare nemmeno di cambiarla la mia vita...mi sono arreso senza combattere...- continuò abbandonando dalla stretta la mia veste ed incominciando a parlare quasi a se stesso, -così diranno i tuoi figli, i figli dei tuoi figli…-. –No padre, non è così…non è come pensi…- balbettai; -oh Valerio…il tuo cuore pensa questo, lo so…ma sbaglia…ora, solo ora che sto per morire mi rendo conto di ciò che sono…un vile...-disse scuotendo la testa.
-parlo a te perché tu sei giovane- riprese con evidente fatica –non far si che a un passo dalla morte possa pentirti di come hai vissuto, vai via da qui…ricorda sempre che sei tu…solo tu il responsabile e l’artefice della tua vita." Terminò prima di piegarsi su se stesso divorato dalla febbre e dai fremiti della tosse.
Gli accarezzai lentamente la testa e mormorai –io non provo vergogna per te-.
Il giorno successivo, nel rumore leggero della pioggia che cadeva sulla terra e sui rami frondosi, nell’aria fredda e azzurrina dell’alba mio padre morì. Trasportata via dal vento, la sua anima ci abbandonò esalando l’ultimo respiro in un rauco verso d’angoscia. Il suo sguardo gonfio di paura si fermò su di me per un istante, poi i suoi occhi non videro più.