Mercoledì, 29 Aprile
La pioggia bagnava le strade di Venezia. Leggera. Delicata come un velo trasparente.
Il canale correva nel suo letto, impettito dai rinforzi caduti dal cielo. I gondolieri continuavano nei loro giri mattutini, incuranti della giornata uggiosa, ormai abituati a non lasciarsi ingannare da un tempo non sempre generoso. Venezia era bella sempre e comunque.
Le vie inumidite erano scivolose e più maleodoranti del solito. Salvatore passeggiava a testa bassa tenendo sotto braccio sua moglie. Quel giorno non era di servizio e aveva approfittato per assecondare la volontà della sua signora di tornare dopo vent’anni sul Canal Grande. Più che la voglia di farla contenta, era stata una necessità di non sentirla più insistere ogni domenica a convincerlo a intraprendere quel breve viaggio che separa Milano da Venezia.
Ma la profonda tristezza gli traspariva sul volto, fra le rughe dei suoi sessant’anni, come un paesaggio dietro un vetro. Non c’era stato modo, in quegli ultimi cinque anni, di nascondere quel penetrante senso di depressione di cui era caduto vittima dopo la morte di Agata, la loro unica figlia. A soli dodici anni era stata colpita da una leucemia galoppante, che in sei mesi l’aveva portata via. Via dalle braccia amorevoli di suo padre, che l’aveva desiderata per tanti anni e soltanto dopo quindici anni di matrimonio era avvenuto il miracolo.
Dopo la malattia Salvatore Sciuto, sangue bollente siciliano, era diventato un pezzo di ghiaccio senza vita. Aveva continuato a indossare la sua divisa soltanto per mandare avanti la sua piccola famiglia, giacché la moglie era casalinga. Ogni tanto, in quegli anni, era tornato nel suo paese di origine di Giarratana, tremila anime in provincia di Ragusa, per respirare l’aria di quando era giovane. Quando tutto quel dolore doveva ancora artigliargli il cuore.
Respirò profondamente l’aria del canale, e i polmoni gli bruciarono di quell’inconfondibile odore. Passò la mano libera sulla sua testa, dove qualche anno prima crescevano folti capelli brizzolati. Avevano lasciato il posto ad una peluria canuta e sottile che circondava le tempie.
Sentì forte il freddo sulla pelle nuda del capo, abituato ad essere coperto, se non più dalla sua chioma, quantomeno dal berretto della polizia che era costretto a portare ogni giorno. Infreddolito si rimise il cappello di feltro grigio che gli dava un tono di importanza.
La sua missione a servizio della società milanese sarebbe finito di lì a pochi mesi, quando forse avrebbe dovuto comprare un altro cappello.
La pensione era ormai prossima, dopo trentacinque anni di onorevole servizio.
Così avrebbe potuto dedicarsi a tempo pieno alla sua depressione.
Semplicemente riusciva ad andare avanti. Ma trascinava ogni giorno come un nuovo passo verso la tomba. Il senso di autodistruzione cresceva dentro di lui.
Lasciò la consorte a guardare la vetrina di un’importante gioielleria e si allontanò da solo. Erano a pochi metri da uno dei tanti ponticelli che fanno da romantica cerniera alle due metà della Serenissima. Imboccò il suo ingresso e si ritrovò al centro, appoggiato sulla ringhiera, a guardare il canale scorrere.
Sotto di lui stava passando una gondola. A bordo c’era una famiglia sorridente, composta da madre, padre e figlia. Non potè fare a meno di rivedere in loro la sua vecchia famiglia. Si scoprì a pensare a tutte le gite che avevano fatto. A quella volta che andarono a Gardaland, il bellissimo parco divertimenti. Agata era così felice di poter vedere la casa dei fantasmi.
Oppure all’altra volta che erano stati nella splendida Val di Non. Erano rimasti tutti estasiati da quegli irripetibili spettacoli della natura. Si erano ripromessi di tornarci presto. Ma mai troppo presto, perché, dopo appena due mesi, avevano avuto la terribile notizia della malattia.
Erano iniziati i giri per decine di ospedali. Avevano attraversato il nord Italia e avevano tentato anche le cliniche svizzere. Ma il risultato era sempre lo stesso. Nulla da fare.
Suo malgrado il flusso dei ricordi lo portò a rivivere la scena dell’ultima volta che aveva parlato con la piccola. Le lacrime cominciarono a scendergli sul viso fino a salargli la bocca, proprio come quel giorno di cinque anni prima.
Lei era sul letto dell’ospedale. Salvatore le teneva la mano sforzandosi di far emergere un sorriso tra le lacrime. Come in un flash rivide le pareti bianche della stanza. L’ambiente deprimente e asettico. La sua piccola nel letto, coperta fino al collo dalle lenzuola. Il suo faccino emaciato bianco del pallore di un sangue malato.
E presto schiarito ancora dal pallore della morte.
Lei disse soltanto << Papà non lasciarmi da sola>>. La moglie era nel corridoio a parlare con l’oncologo. Il cuore gli andò in polvere dopo quella frase pronunciata con voce debole, quasi un sussurro d’oltretomba. E quella polvere era ancora lì, sul fondo del suo torace. Non aveva mai ripreso a pulsare in quegli ultimi cinque anni.
<< Non ti preoccupare piccolina mia, resto qua. Papà non ti lascia la mano>>.
Lei sorrise con una flebile smorfia. Le rimase dipinta sul viso nel rigore della morte.
Era spirata così, serena come aveva vissuto.
Pianse più forte e si accorse di avere ancora un cuore quando se lo sentì esplodere nella gola. Due lacrime andarono a ingrossare il canale.
Si tolse il cappotto e lo lasciò cadere a terra, dietro di sé. Un attimo dopo era saltato dal ponticello. Per chiudere il suo dolore nel fondo di quel freddo canale. Sì, era il giorno giusto. Proprio lo stesso giorno di aprile in cui cinque anni prima le avevano portato via la sua bambina.
L’acqua era fredda ma non ebbe neanche modo di avvertirlo.
Moira fu attirata dalle immediate urla delle signore che erano intorno alle rive e sul ponte. Si girò di scatto, quasi consapevole che quegli strilli erano diretti a lei.
Corse al bordo del letto del canale e tutto ciò che vide fu un cappello di feltro grigio galleggiare tremolante sull’acqua scura.
La morte aveva bussato forte ancora una volta alla porta di Salvatore. Cercava lui.
Ansioso di aprire era inciampato, vedendo così allontanarsi la luce bianca della liberazione.
Aprì gli occhi e attorno a sé vide soltanto l’asettico arredamento di una camera di ospedale. Proprio come cinque anni prima. Solo che adesso sotto il lenzuolo c’era lui. Accanto due medici e sua moglie Moira.
<< Direi che è fuori pericolo>>, sentì dire da uno dei pupazzi in camice bianco.
No! Come fuori pericolo! Io dovevo aprire la porta! La luce…
<< La luce!!>> gridò sbarrando gli occhi e vedendo la vita di una vita che non voleva più.
Indossava solo uno strano camice. Sotto era completamente nudo. << I miei vestiti dove sono? Voglio andarmene>>.
Moira guardò il medico più vicino, che probabilmente doveva essere quello principale.
<< Beh, non ci sono controindicazioni. Per fortuna l’acqua non ha fatto in tempo ad invadere i polmoni, e la pronta lavanda gastrica le ha risparmiato spiacevoli conseguenze di avvelenamento. E’ stato graziato. Sta bene, se se la sente può andare>>. La donna si sentì tranquillizzata.
Quando rimasero soli, lei lo guardò con una compassione mista a rimprovero.
Lui l’anticipò, per bloccare qualunque forma di commento.
<< Non voglio che si sappia d’accordo? Domani riprenderò il mio servizio senza nessuna conseguenza. E’ stato un momento di debolezza. Stop>>.
Quell’ultima parola fu accompagnata da un inequivocabile gesto con la mano che non le consentì di aggiungere nulla. Si accontentò di poter portare il marito a casa.
Soprattutto di non dover seppellire anche lui. Semplicemente perché, forse, il destino aveva deciso che non era ancora la sua ora. Ignara, lo ringraziò in silenzio.
Giovedì, 30 Aprile, ore 5
Sono stanco. Quei maledetti me la pagheranno cara.
Dopo l’ennesimo lavoro perso Alessio Menedin era veramente al limite.
La notte passava sempre troppo lenta. Abbastanza da acuire a dismisura il suo odio verso la società. Verso quella società che continuava ad emarginarlo. Senza un valido motivo. La sua laurea in ingegneria non era servita proprio a niente. Per ben quattro volte era stato assunto come responsabile del settore chimico di imprese farmaceutiche.
La prima volta, dopo aver inviato decine di curriculum, un’azienda di Vicenza lo aveva chiamato. Gli aveva offerto un contratto di tre mesi. Con la possibilità di rinnovarlo per altri sei. La paga non era alta. Funzionava sempre così per gli accordi di così breve durata. Veniva quasi equiparato ad una sorta di prova.
Trascorsi i tre mesi a lavorare dodici ore al giorno, i dirigenti gli avevano inviato una lettera in cui gli si diceva che avrebbero fatto a meno di lui.
Nessuno si era premurato neanche di convocarlo di persona.
La motivazione era stata rubricata in “necessità aziendali superiori”.
Dopo circa un anno era stato contattato da una piccola industria di Valdagno.
Non era molto distante da casa sua e riusciva ad arrivarvi in pochi minuti di autobus.
Anche in questo caso contratto a tempo determinato. Tre mesi per dimostrare il proprio valore. Ce la mise tutta ma anche quella volta alla scadenza dell’accordo fu liquidato.
Ed era di nuovo a spasso.
Nello stesso modo era andata le altre due volte.
L’ultima pochi mesi prima. E dire che ce l’aveva messa sempre tutta. Solo che le aziende preferivano prendere sempre nuovi neolaureati per legarli con uno stage non retribuito. Alla scadenza ne avrebbero preso un altro. E poi un altro ancora. Senza pagare mai un centesimo. L’unico mezzo di sostentamento che aveva era una pensione che riceveva grazie al padre, che era stato tanti anni ferroviere, prima di morire di cancro.
La mattina precedente aveva ricevuto una lettera dalla Confederazione ferrovieri, in cui si diceva terminato il trattamento pensionistico per lo scadere del decimo anno.
Poche righe fredde per comunicare che non avrebbe più ricevuto un euro. Spiegavano che la pensione veniva erogata soltanto per dieci anni dalla morte, e che erano molto spiacenti di dover interrompere il trattamento. E pensare che il padre aveva voluto continuare a lavorare fino all’ultimo giorno. Per serietà diceva.
Alessio era caduto nella disperazione perché ora non aveva più nessun modo di andare avanti. Possedeva solo quella piccola casa nella campagna di Cornedo Vicentino, lasciatagli dai genitori. Era appartenuta prima ai suoi nonni materni.
Era una vecchia cascina di campagna, di quelle abitate solitamente dai contadini. Le pareti erano intrise di umidità ed erano ormai ingiallite. Larghe macchie coprivano gli angoli del soffitto. I mobili erano spartani e avevano tutta l’aria di essere molto vecchi. Persino il cancello del piccolo cortile era sradicato e completamente arrugginito. Ad Alessio non importava. Né aveva i soldi per affrontare lavori. Non si occupava neanche della pulizia, ed era piuttosto evidente dagli strati di polvere accumulati su tutte le superfici.
Era stanco. Era veramente stanco.
Anni di sacrifici sui libri, massimo dei voti. E poi? Solo un grande vuoto a riempire le sue giornate di disoccupato e tanta polvere sulla laurea appesa tristemente al muro. E poi tutti quegli anni di psicanalisi, di psicofarmaci. La depressione era troppo forte.
Quella notte la rabbia aveva raggiunto il limite massimo. Ormai era deciso più che mai a fare qualcosa di grosso per uscire da quella situazione. Gliel’avrebbe fatta vedere lui a quei pomposi pupazzi più attenti al colore della loro cravatta che a quanto gli succedeva veramente intorno.
Si alzò per andare a bere un sorso d’acqua. Rimase qualche minuto così, al buio, immobile con le mani poggiate sul tavolo della cucina. Il respiro affannato dall’ansia di quanto aveva deciso di fare.
C’è una strada. E quando si decide di percorrerla non si può più tornare indietro.
La barriera era rotta. E quella strada era l’unica ormai percorribile. Le altre si erano manifestate miraggi del calore del deserto. Nulla di più.
Tornò nella camera da letto e aprì l’armadio. A terra c’era una scatola, piena di polistirolo. Spostò i fiocchi bianchi ed emerse la sua M9. Un’arma semiautomatica perfetta. Se la rigirò nelle mani acquistando improvvisamente sicurezza.
Il suo sguardo era deciso, rotto dalla malinconia della solitudine.
Aveva comprato quel giocattolo pochi giorni prima. Gli ultimi mille euro che gli restavano da parte se n’erano andati così. Con quell’investimento per il futuro.
Un futuro in cui avrebbe imboccato una strada pericolosa e senza vie di ritorno. Senza una gomma da cancellare che consentisse una facile diramazione.
Dalla scatola tirò fuori un caricatore e una scatola di proiettili ancora sigillata.
Poi guardò l’orologio. L’alba ormai era un ricordo e il sole che annunciava maggio era già splendido sopra il suo rudere.
Tolse la tuta e infilò una vecchia camicia a quadri e un jeans che ormai non usava più da anni. Prese qualcosa dall’armadio. Sembrava una specie di cappello nero.
Mise l’arma nel profondo tascone del jeans e lasciò la sua casa incustodita. Si fermò a guardarla. Forse per l’ultima volta. La decisione che aveva preso non lasciava molti spazi a ritorni. Se tutto fosse andato come aveva previsto, non sarebbe più potuto tornare lì. Non sulle sue gambe. Non in quella vita.
Camminò ancora a piedi. Verso la corriera che lo avrebbe portato alla stazione di Vicenza. Direzione Milano. Era lì che voleva mettere in atto il suo piano definitivo.
Nella città della finanza.
Sapeva già dove andare a realizzare il suo ultimo atto di coraggio.
Tutti avrebbero parlato di lui. E tutti finalmente avrebbero capito.
Nessuno lo avrebbe più deriso per niente. Né per la sua solitudine, né per la sua testa così presto calva. Né per la sua povertà. Per il fatto di essere diventato una sagoma giù in paese, per l’epopea dei suoi licenziamenti.
Ai suoi fianchi scorrevano le siepi lisciate dal vento. La polvere svolazzava a folate spingendolo più veloce verso l’autobus che lo avrebbe portato a un passo dalla fine.
Il momento della rivalsa era arrivato.