buona lettura

LA PATRIA E LA META
Due strisce di metallo, pesanti, si stagliano su una pavimentazione brecciosa.
Le seguo con l’occhio stanco, le voglio veder scorrere finché non arrivano alla Meta. Proprio lì dove due linee parallele riescono ad incontrarsi.
La Meta è comune, in quanto è troppo lontana per essere calibrata secondo gli schemi delle unità di misura convenzionali. Sono distanze insormontabili, anche per il mostro come quello che mi caricherà addosso.
Tiro un’altra boccata.
Mio padre mi parlò della Meta. Mi disse di tenere gli occhi bene aperti già appena sceso.
Mi raccontò del suo viaggio.
Appena pose il piede sulla nuova terra il primo mattino vide come l’uomo potesse diventare indegno se gli si toglieva il lavoro.
Mi raccontò di un uomo vestito bene che dall’aspetto poteva sembrare un fortunato, uno di quelli che avevano trovato lavoro ormai da tempo, magari sposato e con una vita piena di affetti come la sua pancia, finché non lo vide estrarre un bisturi, tagliare la cucitura della tasca posteriore del suo predecessore, prendere il portafogli per poi nasconderlo accuratamente nel suo “Sole 24 ore”.
Mi disse come passò i primi mesi, fuori, a sudare per un piccolo stipendio con cui manteneva la sua famiglia prima che lui, e a casa, seduto a terra usando un frigorifero come tavolino, solo, con un materasso sporco come letto, mangiando ciò che alla Meta chiamavano cibo, non che fosse immangiabile: tutto lì aveva il sapore di plastica.
Ciò mi spaventava a morte: avrei sempre preferito morire prima di vivere una vita vuota e stentata.
Avevo cinque anni quando mio padre partì. Mi convinsi soltanto che lo avevo perso come si perde una fiche a poker, in una partita troppo onerosa per qualsiasi essere vivente, bambino o uomo che sia.
Da allora, i soli bambini con cui socializzavo erano quelli che il genitore lo avevano perso davvero, a volte schiacciato dal lavoro nei campi, altre dalle macchine, quasi a dire che per lavoro si deve morire. Mi sentivo fortunato a frequentarli, stando con loro potevo sfamare il mio bisogno di affetto con la speranza che si potesse colmare presto, non come per loro. Egoisticamente provavo un senso effimero di orgoglio e contentezza.
Mia madre faceva di tutto per colmare il vuoto in famiglia, ma per mantenere due figli e coprire due ruoli genitoriali ci vuole il quadruplo del lavoro.
Fu così che decise di partire anche lei e ci affidò ai nonni paterni. Loro quel viaggio lo avevano già fatto da tempo e ora potevano godersi i frutti secchi che ne avevano ricavato.
Passavamo i doposcuola in giro per il paese, nei bar, col nonno. Lì capii cosa vuol dire aspettare la morte.
Uomini, ormai anziani, si presentavano lì allo stesso orario ogni giorno, prendendo la stessa birra sempre alla stessa ora e con la stessa battuta che faceva ridere solo il barista in una risata a denti stretti.
Erano loro gli scarti della società, loro che avevano lavorato solo per dare un futuro alla stessa società, loro che adesso si ritrovavano lì a picchiarsi per cinquecento lire appellandosi bari.
Un giorno uno di loro mi prese in disparte e mi raccontò un po’ della sua storia, mista a varie farneticazioni che a undici anni non potevo ancora capire. Ma una cosa mi rimase impressa: prese dalla tasca un pacchetto di sigarette e me lo mostrò. Mi disse, sbiascicando: << lo vedi questo rettangolo?? Questo è il nostro paese>>. Passò lentamente il dito sulla superficie liscia anteriore e, ogni volta che toccava uno spigolo, ripartiva da capo: << puoi sbattere qui, qui o lì, e potresti pure divertirti a farlo, ma se stai qui non potrai mai uscire dal rettangolo … cerca di fare come tuo padre … appena puoi, lascia tutto e vai ... Qui non è rimasto nulla per voi, se non terra arida ….>>.
Stacco le labbra dal filtro.
Sputo a terra.
Forse questa è l’unica cosa che si merita.
Ora mi trovo sulla stessa panchina che, immagino, occupò a suo tempo mio nonno, poi mio padre e anche mio fratello, con l’unica differenza che io, dicono, posso ritenermi fortunato: adesso non ti sputano più addosso, si limitano a sbeffeggiarti.
Non ho mai trovato giusto che per farsi una vita bisognasse viverne un’altra di passaggio.
Ricordo che passavo le mie giornate a fantasticare cosa ci fosse al di là del muro. Progettando la mia vita, progettando i miei passi, immaginando persino la divisione degli orari.
Avevo sempre la testa bassa quando mi allontanavo da casa per andare a scuola, ogni mattina mi muovevo con il pullman, salutando con un cenno assonnato gli operai della FIAT che rincasavano dal turno di notte. Avevo la testa in aria ogni qualvolta pensavo che prima o poi quello strazio sarebbe dovuto finire. Sentivo addosso il peso del mondo gravarmi sotto l’ombra della spada di Damocle della mia vita.
Ogni giorno mi dicevano che dovevo dare di più, che dovevo impegnarmi, che non dovevo essere il solito capë a’ magljë e vivere secondo le mie regole.
Ogni giorno sentivo di dovermi allargare, ogni giorno volevo un altro po’ di quello spazio che mi spettava.
Vedevo professori riempirsi di belle parole e belle citazioni, perlopiù prese in prestito da qualcun altro, coprendo così la realtà che ci circondava, facendoci sbigottire con pensieri non loro, per nascondere spesso le loro malefatte. Loro quantomeno potevano permetterselo, loro il pezzo di carta tra le mani lo avevano già sbandierato ai quattro venti.
Ma per me non è mai stato così. Non avevo un futuro sicuro e non ho mai abbassato la testa a ciò che mi veniva imposto, aspettando solo il momento della mia chiamata. Non portavo mai rispetto se non a chi lo meritava.
Ero un bambino quando imparai cosa volesse dire il rispetto, quando per la prima volta alzai la mano contro un mio coetaneo che disse qualche parola di troppo contro la mia famiglia. E’ grazie a queste nozioni che non ho mai perso la mia voglia di alzarmi la mattina. Per rispettare me stesso.
Ho aspettato ore sulla panchina sperando di vedere il pullman. Aspettavo ore che arrivasse il momento del ritorno.
Passai la maggior parte della mia vita ad aspettare. La voglia di crescere in fretta eclissò ben presto quella di godermi il mio tempo. Aspettare diventò la mia parola chiave e la mia filosofia di vita, d’altronde, pensai, non mi rimaneva altro che la speranza.
Ho sempre pensato che con il verbo spagnolo esperar si potesse sintetizzare la vita.
Ora me ne pento. Chi mi circondava mi convinse che ciò che calpestavo fosse solo merda, ora so che dalla merda nascono i fiori, dall’oro e dalla fortuna non nasce nulla.
Un trillo mi risveglia dai miei pensieri.
La mia chiamata.
Prendo le borse e le valigie di cartone dove conservo un po’ della mia terra e salgo sul mostro di metallo. Trovo subito posto vicino al finestrino e mi ci sporgo. Davanti a me, tra una galleria e l’altra, vedo uno di quei paesaggi che molti definiscono Opere d’Arte.
Il crepuscolo colora d’argento le foglie degli alberi che circondano i binari e quando si apre uno spiraglio nel fitto intreccio di rami e cemento si vedono le case della mia città, incastonate nella terra battuta o nell’asfalto.
Mi godo un po’ ciò che mi avevano detto inimitabile.
Ricordo che invitammo da noi una coppietta, nata dove è la mia Meta, che della nostra terra non aveva visto niente, troppo impegnata a mantenersi a galla per godersi una vacanza.
Io e mio padre li andammo a prendere in macchina.
Passando vicino ad un campo appena concimato, ci vergognammo dentro dell’odore della nostra terra. Al contrario i nostri ospiti erano contenti: <<Amore … Senti? Senti che profumo di letame!>>, <<E’ vero. Quest’aria così pura ti apre i polmoni!>>.
Ironico. Ciò che avevo sempre odiato, a loro piaceva davvero. Persino quegli alberi che, spesso di domenica, andavamo a tagliare per prepararci all’inverno. Avevo dodici anni quando mio nonno mi insegnò ad usare la motosega, da allora degli alberi non avevo visto che il legno.
Ma quei due sembravano così emozionati nel fotografare quei grovigli di rami che mi avvicinai per chiedere il perché, d’altronde qui non avevo visto altro per tutta la vita.
Mi dissero:<< Vedi, non sempre ci accorgiamo di ciò che abbiamo finché non lo perdiamo o crediamo di averlo perso … Avete un potenziale che non riuscite ad immaginare … Siete fortunati a vivere qui e spesso non ve ne rendete conto … Io qui ci metterei la firma ad occhi chiusi per vivere…>>.
Gli risi in faccia. D’altronde così mi aveva educato la mia esperienza.
Mi si avvicina una ragazza sui trent’anni, carina e slanciata.
<< Mi scusi, questo è il mio posto>>.
Mi scuso e ritiro indietro le gambe dal sedile di fronte, contento di non dover dividere lo spazio con qualche uomo sudato e prepotente, magari.
<< Qual è la tua Meta?>>.
Brutto modo per iniziare un discorso, quasi a chiedere quando se ne andasse. Non sembra badarci troppo, probabilmente è abituata.
<<Bologna. Studio lì. Una bella città, davvero. Sono molto aperti di mente. Tu?>>.
<<Milano. Mi aspetta il lavoro lì>>.
Scopriamo presto che dovevamo dividerci anche la cabina del treno successivo, a Foggia.
Il viaggio passa in fretta tra una battuta e l’altra, tra una speranza e l’altra, tra una riflessione e l’altra.
Scendiamo a Foggia dove dobbiamo aspettare il prossimo treno. Appena scesi ci accorgiamo di quanti siamo. I vari dialetti si mescolano tra di loro con l’italiano stentato che spesso caratterizza tutti i meridionali. Sembra di stare in un mercato di Istanbul o, più verosimilmente, in un quartiere italoamericano degli anni trenta.
Mi si apre un sorriso nascosto.
Su di noi è aperta la volta celeste, nessuno sembra notarla.
Eppure mi ricordo che mia madre mi raccomandò di guardare il cielo sempre, prima di lasciare la mia terra. Non ne avrei mai trovato uno simile. Dove stavo andando i veli di piombo coprivano la città, Dio non poteva più vederci.
Le chiesi immediatamente il perché di quell’affermazione, d’altronde dove stavamo non è che fosse meglio se per vivere dovevamo spostarci all’inferno. Le scese una lacrima sulla guancia, mi abbracciò e mi raccomandò di non dimenticare mai il posto da dove venivo, e che mai, per nessuna ragione, me ne sarei dovuto vergognare. Mi spiegò che siamo noi il vero problema della nostra terra. Se chi ha trovato fortuna si ricordasse delle sue origini, se l’avidità, la corruzione, l’idea di odiare la nostra terra e la voglia di abbandonarla per sempre non la contaminassero, il nostro Mondo sarebbe un Mondo Migliore.
Ma, d’altronde, ognuno scava la propria via d’uscita con le unghie e pochi stolti decidono di ritornare nella gabbia.
E’ una costante.
Senza preamboli ci troviamo a salire tutti sul treno.
La mia cabina.
Mi siedo e guardo fuori dal finestrino.
Chissà quante di quelle formiche hanno trovato il loro locus amoenus. Chissà se stanno bene con se stessi oppure il cancro li sta divorando dall’interno.
Chissà quanti di loro potranno tornare a morire in Patria.
Finalmente il treno comincia a muoversi.
Elisa non c’era. Probabilmente si sarà persa nel caffè del bar.
O semplicemente avevamo la stessa cabina in due treni diversi. Semplicemente avevamo solo bisogno di un appoggio e di un senso di familiarità.
Tanto meglio: odio la solitudine di compagnia.
So già come andrà questo viaggio.
Prima sarà la noia ad assalirmi. Poi mi addormenterò nel torpore del mio giubbotto. A Pescara mi sveglieranno le prime voci che ci abbandonano. Si sostituiranno accenti diversi. Rimarrò con gli occhi aperti fino alla Meta. E domani devo lavorare.
Chissà come sarà il nuovo lavoro che mi attende. Chissà con chi dovrò dividere la mia aria.
Spero sia diverso dall’ultima volta.
Appena arrivai in loco iniziarono le prime risatine a denti stretti, le prime occhiate di sospetto. Cercavo di parlare sempre meno, di nascondere il mio accento, di nascondere la mia pelle olivastra delle braccia sotto le maniche lunghe, di non parlare mai della mia Patria.
Ma era inevitabile.
Ogni colpa ricadeva sull’anello debole, ogni voce pressava sulle mie tempie.
Eppure non riesco ancora oggi a spiegarmelo.
Il sangue versato per il nome “Italia” era lo stesso da Nord a Sud, le braccia più forti che ricostruirono il loro mondo erano quelle dei compaesani, molte voci tra le intelligenze migliori avevano il mio accento.
Non c’è un senso e non ci sarà mai, probabilmente, nel nazionalismo regionale: l’unica soluzione è quella di camuffare tutto sotto belle parole. Parole d’ideali. Parole di una rivoluzione del fumo, senza basi e senza storia alcuna.
Una goccia d’acqua mi bagna il naso. Incomincia a piovere.
Meglio chiudere il finestrino.
Meglio tenermi tutto dentro.
Ecco gli altri passeggeri che entrano a passi pesanti, sguardo cupo e occhi grigi.
Vedevo qualcosa di simile soltanto nelle stazioni della periferia milanese.
Giacca, cravatta e camicia, capo chino, sguardo spento. Occhi grigi.
Noi siamo cupi perché sappiamo cosa ci attende. Loro sono cupi perché non lo sanno.
La loro giornata finirà davanti alla televisione, seduti sul divano. La nostra resterà impressa come un negativo sulla retina che rispecchia la grigia coltre del cielo.
Noi moriamo di speranza falsa. Loro di certezze inesistenti.
Ironico.
Fuori il buio cammina tra le assi dei binari.
Dentro ci scambiamo qualche occhiata per vedere se possiamo fidarci di noi stessi.
La palpebra pesa. Comincia a scendere. Non voglio. Non ancora. Ma è più forte. Infine si chiude.
Nero.
Iniziano a delinearsi le prime luci sullo sfondo. Sento la terra muoversi sotto i miei piedi.
Apro gli occhi lentamente.
Mi alzo e guardandomi intorno vedo lo spazio che mi circonda è limitato.
Ma è solo terra. Soltanto terra pura.
Arrivo al limite e mi sporgo.
Sto fluttuando su una strada asfaltata. Io su questa terra spoglia.
Al di là della strada campi verdi, piccole case, castagni, vigneti, ulivi.
Piano si diradano. Si diradano sempre di più. La strada comincia a farsi tortuosa.
Iniziano a farsi spazio i primi palazzi. Alti, imponenti, squadrati, fatiscenti.
Il cemento ingoia tutto.
L’aria è irrespirabile.
La terra inizia a cadere, il contatto con quell’aria la fa sgretolare sempre di più, fino a farmi trovare in piedi su un cerchio.
Continua a cadere. Ho paura. Devo respirare.
Do aria ai polmoni spalancando gli occhi. Finalmente.
Sento che qualcuno è sobbalzato, ma non ci fa caso e torna nel proprio torpore.
Chissà dove siamo.
Ma è ancora buio.
Mi alzo e faccio scostare qualcuno, con qualche dissapore, per poi avviarmi al bagno.
Aperto il rubinetto inizio a lavarmi il viso. Caccio il cellulare dalla tasca. Sono ancora le quattro. Fra un’ora e mezza sarò alla mia Meta. Meglio programmare la sveglia per quell’ora.
Torno a sedermi in cabina e chiudo gli occhi.
Li riapro quasi subito, credo.
Le prime luci dell’alba rendono il cielo verdastro dando un po’ il senso di un velo sul sole.
Il telefono trilla. La cabina è semivuota. Con me c’è solo un anziano che ha gli occhi scavati e un sorriso tagliato trasversalmente tra le rughe vissute del suo viso.
Ha gli occhi lucidi.
Probabilmente il primo viaggio per lui è stata la consacrazione di un sogno che poi è andato dissolto.
Glielo leggo in volto. Lui è abituato agli addii e agli arrivederci. Io no.
Cerco di essere altrettanto gentile, ma appena sveglio non ci riesco molto bene.
Torno in bagno. Mi lavo i denti e cerco di darmi una parvenza di umanità sotto le occhiaie.
Non avrei mai creduto potessi cedere a Morfeo per così tanto tempo.
Forse è stato meglio così.
Prendo le valigie attendendo la fermata. La voce dice che a breve sarò arrivato.
Vicino a me si aggiunge sempre più gente, siamo accalcati tutti sullo stesso vetro.
Il treno finalmente si ferma. Scendiamo.
Mi fermo e lascio gli occhi a giocare con ogni particolare.
Mi accendo l’ultima sigaretta del pacchetto guardando sul tabellone delle linee. Tutti si muovono lentamente intorno nascosti tra i loro bagagli.
Non è cambiato nulla dall’ultima volta. Il mondo si stanca di girare, forse.
Ora vado a lavorare.
Cercando di cancellare la mia Patria dalla testa.
spero vi sia piaciuto
