:unsure: “Madre toglimi l’etichetta che mi affigge”
RACCONTO BREVE 2003
Sono nata nel 1952 in un paesino agricolo della Puglia, alle falde della montagna ad esso sacra, da una famiglia di povera gente, ultima di sei figli.
Mia madre aveva trentasette anni quando mi partorì; per me versò due lacrime, una la diede alla gioia, che addolcisce e rinfresca e l’altra alla sciagura, che è amara e arde come lava.
Per mio padre ero un’altra bocca da sfamare.
Per mia madre, una disgrazia inevitabile.
Per i miei cinque fratelli, un giocattolo vero che strillava, che si aggrappava ai seni vuoti della mamma.
La mia infanzia fu un paradosso della vita; il latte di mia madre era già contagiato da un presagio minaccioso. Le sue braccia stanche non mi offrivano protezione; i suoi occhi erano consumati dal pianto e il suo cuore batteva solo per paura.
La sua bocca si apriva solo per pregare o maledire me, ultima nata, che chiedeva rifugio, dalle sagome umane che colpivano nel buio.
Mio padre……povero padre!
Quanta pena mi faceva: voleva l’uguaglianza e finalmente il suo sogno si è avverato.
Lo intravedo ancora, mentre sta camminando, vicino al possidente che ci negò un po’ di ricotta per la festa dell’Ascensione.
Al calzolaio che non volle risuolare a credito le sue uniche scarpe, al macellaio, con la barba a capretta, che lo trascinò in tribunale, quando voleva vendere carne senza licenza.
Al maestro elementare che mi dava lezioni; nell’attesa di un compenso divino; dirigeva come un direttore d’orchestra indemoniato, rompendo dozzine di bacchette sulle nostre teste.
E lui, mio padre, il più povero, il più riconoscibile con quelle natiche magre!
Il più sfruttabile per lavori all’occorrenza.
Era collaudato ad ogni evenienza; armato di santa pazienza e tanta esperienza.
Conosceva la morte in agguato, la meschinità degli uomini, il gioco dei potenti, lo sfruttamento dei padroni.
Intendeva tutta la scala dell’umiliazione, le strade oscure con ombre minacciose, con lupi famelici in notti insonni, nei suoi viaggi solitari, nell’illusione d’affari fallimentari.
Ora può tenere su la testa! Non deve più nascondersi dai creditori; sono tutti nudi, globalmente insieme, uguali, sono tutti morti!
Fin da bambina, la sera a letto, invece di pregare, leggevo i giornalini d’avventure che ci scambiavamo nei banchi di scuola elementare.
Mia madre mi sgridava ripetendomi, che le storie di malavita che mormoravo prima di addormentarmi, non potevano sostituire la preghiera.
Dopo la prima gioventù ho scoperto i grandi criminali.
Ero convinta che la rapina fosse la follia dei puri, degli innocenti. La rapina non nasconde né inganna e, aggressioni riuscite, valide, contengono bellezze e verità assolute.
Mia sorella, penultima, nata nel 1946.
Cara dolce sorella, il tuo nome è simile a quella Maddalena del Cristo.
Per un tuo cenno il mio dolore si poteva ancora trasmutare e dissolversi in cima ad un albero di gelso; sulla slitta di due assi inchiodate. Sulle ali del tuo sorriso sarei volata in cielo a raccogliere delle stelle.
Nei campi dove lavoravamo come braccianti, giocavamo con le pannocchie di granoturco rubate.
Cara dolce amica sorella: il tuo silenzio è riflesso negli occhi della mamma che, non saliva sul gelso per evitare di sporcarsi l’abito.
Non avere paura, ora siamo adulte.
Ora la mamma è nuda, calva, leggera. Ricordi? L’abbiamo trascinata, insieme, in cima ad una piramide di scheletri per sistemarla vicino a Dio in cui tanto ci credeva.
Cara mamma, ora la tua bocca incenerita, non mi dichiarerà più né verità né menzogne.
Sono rimasta sola; oltre la finestra della mia stanza svolazzano i panni stesi, come i tuoi stracci sulla staccionata di canne marcite.
Non sono scappata con gli zingari per divertirmi, ma per ritrovarmi tra le tue braccia di punitrice. Non ho mai disubbidito per cattiveria, ma solo per sentire, nei tuoi urli, il mio nome ripetuto.
Cara mamma, alla mia età si fanno i conti.
Il dolore non a rifugio nella fantasia di una bimba quarantenne, rannicchiata tra le lenzuola sterili di un albergo d’infimo ordine. I miei sbagli sono infelici, mi somigliano, nella perfetta monotona moralità; sono una donna torturata, che ha sempre torturato.
Forse hai ragione tu. Ma, non ho mai avuto niente di meglio, i miei occhi erano sempre da randagia.
Sto raccogliendo le briciole di uno splendido inganno.
Mio fratello Sebastiano, mendicante d’amore materno.
Presenza pallida.
Natura malaticcia.
Spia, dei miei piccoli giochi proibiti.
Dalla cima di una scala gli ho fatto pipì addosso.
Di lui ben poco mi ricordo; la natura era stata maligna con lui, costretto dalla malformazione fisica, all’immobilità quasi totale
Povero fratello mio, cosa poteva diventare?
Forse sarto in un ghetto babelico meridionale, con la danza dell’ago negli occhi?
Una vita colorata di tessuti carnevaleschi?
Nelle orecchie aveva solo echi d’armi rivoluzionarie partigiane; gemiti di una dittatura fascista in agonia, e, nel cuore il progetto di non tornare mai più in ospedale.
Povero fratello mio, anche lui ora sta vicino a Dio.
Mio fratello Ciro, punta di diamante nella famiglia.
Lavoratore indefesso.
Anche lui, fin dalla tenera età, ha conosciuto lo sfruttamento dei padroni. Senz’arte né parte, preferì l’emigrazione. Povero fratello mio, cosa poteva diventare?
Magazziniere in una fabbrica di cioccolata a Zurigo?
Troppo condizionato, da un passato da dimenticare, da un futuro da ricostruire, cosa mai poteva diventare?
Un compagno di partito non nel paese natio?
Dove di nascosto leggeva un giornale italiano, dove, all’udire una parola antifascista, abbassava lo sguardo inghiottendo obbedienza, per convenienza, per debolezza, per paura di un padre onnipotente che divorava i propri figli?
Il suo sangue rosso è ancora lì, sparso, sull’asfalto nero di una strada di montagna innevata, una delle tante bellissime località montane svizzere, meta agognata di molti turisti.
Mio fratello Rocco.
Meglio tacere: non merita considerazione!!.
Mio fratello Carmine, forse per gioco o forse per amore, a due anni volò nelle braccia di nostro Signore.
Mio marito…:
caro marito, compagno di mille avventure. Non ricordo più i sogni d’anni fa; non ricordo più la mia immagine di donna. Sono svaniti nel tempo inclemente, nell’assurdità rappresentativa dell’autodistruzione.
L’immaginazione è morta. Eppure, quando casualmente sfioro la tua foto, ti sento piacevolmente uomo ed io mi sento disperatamente donna.
Con te ho conosciuto melodie di sensazioni mai appartenute, realtà di un’esistenza lontana, ora nascosta tra volti anonimi.
La parola “amico” è l’unica ragione del presente.
Il desiderio di parlarti è sempre irresistibile.
Nella mente spero solo che il mio sangue avvelenato conceda ancora vita all’ispirazione, permettendomi d’intonare un canto senza tempo.
Vorrei correre con te incontro al nostro amore, baciare dolcemente le tue labbra, accarezzare le tue mani, annullarmi tra le tue parole, entrare nel tuo mondo, colorare di vita i tuoi gesti e morire tra le tue braccia. Allora sarei felice!!
Mia figlia Carmela, la portavo a spasso su di una carrozzina che prima apparteneva a una bambina barese, nel parco Sempione di Milano, grandiosa città industriale del Nord, agli albori del boom economico e quello criminale, con la guerra dei poveri.
L’aria ci avvolgeva come un guanto di nebbia e di nerofumo; sui muri tetri, le scritte sbiadite, si confondevano con le nuove e parlavano sempre di “terroni” indesiderati.
La casa dove abitavamo era dei lombardi, arredata alla meglio con masserizie acquistate probabilmente ad un mercatino di robivecchi.
Il letto dove dormivamo, poteva appartenere a una vittima oppure al suo assassino.
Una notte fuggimmo con la piccola addormentata sul mio cuore.
Giungemmo in terra piemontese, dove le anime dei nostri cari vagavano per le strade in cerca di cartoni, stracci e ferrivecchi da poter barattare con una minestra calda, benedetta e mille volte maledetta.
Poveri noi, affamati, e, con la polizia alle calcagna, in transito in quel quartiere malfamato, dove non si mangiava pane piemontese, e neppure pane pugliese.
La bambina cresceva distratta tra una folla smaniosa di terra promessa; giocava a nascondino tra gli alberi alti che impedivano al sole di riscaldare le nostre baracche.
Chissà come e perché, un pomeriggio il quartiere fu circondato da forze dell’ordine, lei, partendo in un abbraccio disperato, seguito da sorrisini furbeschi, mi chiamò ancora: mamma, mammina……
Poi la corsa sfrenata, ed infine fui arrestata.
Condotta verso il camioncino che era li in attesa, pieno di sbirri.
Quando la rividi, (passarono tanti anni), abitava in una casa alla periferia di Bologna; mi chiamava “zia” che per lei suonava più dolce: come le caramelle che le portavo.
Era stata affidata a una famiglia romagnola.
Sulle guance paffute per i troppi dolci, spiccavano quelle labbra rosse, infuocate, da signorina fatta.
Mi parlava di studi, di tornei, di lavori che sapeva fare meglio degli altri.
Nei suoi occhi stretti, non trovai altro che il riflesso di un palazzo con la banca nuova dove aveva depositato i suoi risparmi. :star: