Credetti di riuscire a stendere i muscoli, lancinati dal dolore. La mia mano reggeva a fatica l'arma, ma non riusciva a sollevarla, ed io ero disteso in una palude di sangue e rantolii di morte.
Prima una gamba, poi l'altra. L'armatura cigolava malamente e lasciava gocciolar il sangue, mio e del nemico. Guardai la luna, quella notte, sperando mi accogliesse. Ora, solo la sua luce, mi baciava delicatamente le guance, sospirando tenue su quella distesa disseminata di nulla.
Gli occhi bruciavano e sentivo il mio cuore, che, con il suo pulsare, mi invadeva la testa di un debole rimbombo.
Volevo riposare. Ogni goccia del mio sangue, colando, lo gridava.
Lo gridava al vento ed il vento disperdeva una notizia che nessuno avrebbe mai saputo.
Quanto contava la mia vita su quel campo? Quanto era contata sin dall'inizio della battaglia?
Pedine di una scacchiera, spazzate via dalla mossa astuta dell'avversario.
In quel momento, mi sentii inutile. Sentivo che non meritavo il riposo, e mi prese l'angoscia, mentre il velo rosso calava sui miei occhi.
Poi lo vidi, a cavallo. Galoppava, anche lui sporco di sangue nell'armatura lucente.
Il bel mantello logoro e stracciato, i lunghi capelli sudati e intrisi di rosso.
Avrei voluto chiamarlo, fargli cenno, gridargli con rabbia : "Perchè?", ma dalla gola mi uscii appena un inutile sussurro e rigettai bile, schiuamando dell'angosciosa certezza che, nel suo galoppare, sarebbe passato oltre.
Ed invece si fermò, strattonando le redini del cavallo.
Volse lo sguardo tutto intorno, sui volti immobili di migliaia di cadaveri. Sentii, quasi di improvviso, i suoi occhi piantarsi nei miei, ne vidi il bagliore di sorpresa, vidi il ritrarsi indietro del volto, poi il gesto con cui incitò il cavallo nella mia direzione. Fu un lampo e balzò a terra, veloce, fulmineo, raccolse il mio capo tra le sue braccia. Non vi fu molto tempo per dire qualcosa.
Lo sguardo del generale nemico, austero, duro, mi guardava, fiero.
La battaglia era vinta, ed io morivo.
Ora potevo riposare.
