A Jessica piaceva sedersi sull’altalena del parco dietro casa in quelle sere primaverili in cui una leggera brezza faceva danzare i fiori del prato. Chiudeva gli occhi, sentiva il suono del vento tra le fronde degli alberi. Piano, quasi inconsapevolmente iniziava dondolare, senza mai smettere di ascoltare. Era il suo modo per staccare un attimo la spina, riposarsi dopo la dura giornata di lavoro, prima di tornare a casa e aiutare la madre con le faccende: cucinare, lavare, stirare, aiutare la sorellina di cinque anni più piccola a fare i compiti di scuola.
A Nicholas piaceva leggere; quando il tempo lo permetteva andava al parco, appoggiava la sua coperta sull’erba e si sdraiava; leggeva libri su libri, infinite pagine che sfogliava piano, come se non volesse fare del male ai personaggi che tra quei fogli stampati vivevano. Quell’ora di lettura nel parco era la sua ora di evasione: lontano dalla madre che passava tutto il tempo con le amiche a discutere di moda e dal padre che non pensavo ad altro che al lavoro e ai soldi. Lontano dalla malattia che silenziosamente lo stava portando via.
A Jessica piaceva correre, studiare, scrivere, sdraiarsi sull’erba e immaginare di volare tra le nuvole e nuotare negli abissi più profondi; ma più di tutto amava danzare. Era una ballerina nata. Aveva frequentato una scuola di danza per quasi tredici anni, fino a quando i suoi genitori non avevano più potuto permetterselo. Jessica sentiva la musica diffondersi nel suo corpo, partire dal cuore e arrivare alla mente, dando vita, energia e ritmo ai suoi muscoli. Jessica aveva un sogno: studiare danza alla Juliard, l’accademia di musica e danza più famosa d’America.
A Nicholas piaceva correre con la sua moto da cross, su è giù per le montagne, le colline e le piste; gli piaceva suonare il basso; quello che amava maggiormente era studiare. Il suo sogno era frequentare la facoltà di Diritto Internazionale a Trento. Voleva ricalcare le orme del padre, diventare una persona colta come lui, forse un po’ anche per attirare le attenzioni di un genitore così freddo e distante.
Che ne è stato dei loro sogni? Delle loro aspirazioni? Delle loro passioni? Jessica sapeva che non avrebbe mai frequentato la Julliard, era un sogno destinato a non avverarsi: aveva dovuto lasciare gli studi a 16 anni e iniziare a lavorare per dare un aiuto alla sua famiglia. La Julliard rimaneva semplicemente il suo desiderio privato. Nicholas sapeva che avrebbe frequentato quella facoltà che tanto desiderava, ma in cuor suo sapeva che non si sarebbe mai sentito apprezzato dal padre. Ma Nicholas amava la vita. Jessica amava l’amore. E entrambi erano decisi a non perdersi nemmeno un singolo pezzetto di queste cose.
Non ricordo come si fossero conosciuti, ma credo sia successo esattamente come io ho conosciuto loro. Frequentavamo la stessa scuola media. Jessica aveva un anno in più di me e Nicholas. Io conobbi prima Jessica. Eravamo uguali: timide, riservate, introverse, di poche parole.. con le stesse passioni e le stesse idee. Facemmo subito amicizia. Del resto era impossibile non essere amica di quella ragazza così particolare e al tempo stesso così speciale. Ben presto il nostro duo divenne un trio quando conoscemmo Nicholas. Anche lui era come noi: il classico ragazzo considerato uno sfigato per via del suo amore per lo studio, i libri, la scrittura. Eravamo inseparabili noi tre. Ci trovavamo anche dopo scuola per studiare. Ci confidavamo tutto. Nemmeno la scelta di tre scuole superiori diverse ci separò. Ci vedevamo nel fine settimana; uscivamo la sera con una compagnia di altri ragazzi. Tutti ci eravamo resi conto dei sentimenti di Jessica nei confronti di Nicholas, tutti tranne il diretto interessato. Ricordo quando Jessica me ne parlò. Capì che già lo sospettavo e mi confidò tutti i suoi dubbi e le sue incertezze. Mi disse che avrebbe voluto dirglielo ma non ne aveva il coraggio. Le chiesi perché. “Perché io sono più grande di lui”, fu la sua risposta. Io non vedevo il problema, non avevano nemmeno un anno di differenza. Ma Jessica era irremovibile. Non glielo disse mai. Avevamo 15 anni io e 16 lei.
Le possibilità di vedersi divennero sempre di meno. Jessica aveva cominciato a lavorare e quando tornava a casa doveva aiutare la madre: io e Nicholas eravamo presi dalla scuola, con continue interrogazioni e verifiche. Spesso persino il sabato nessuno usciva per la stanchezza accumulata durante la settimana. Io e Nicholas aspettavamo con ansia gli esami di maturità: avevamo deciso che per festeggiare la fine delle scuole superiori saremmo andati in vacanza assieme e naturalmente con noi sarebbe venuta Jessica; era lei l’anima del gruppo! Questo viaggio non c’è mai stato..
Un giorno di ottobre dell’anno 2007 mi arrivò un messaggio sul cellulare mentre ero a scuola: Nicholas era in ospedale. Il suo cuore aveva ricominciato a dare problemi. Si era sentito male durante la notte ed erano stati constretti a ricoverarlo. Ora dovevano fare tutti gli accertamenti. Quel pomeriggio stesso andai a trovarlo. Jessica arrivò un paio d’ore dopo, verso le 18 e 30. Nicholas stava meglio, non aveva più forti dolori e i medici avevano già detto che di lì a una settimana lo avrebbero dimesso. Per ora l’operazione non era necessaria. Nicholas non uscì vivo da quell’ospedale. Dopo soli tre giorni dal ricovero, mentre studiavo filosofia mi suonò il cellulare. “Nicholas è morto”, furono le uniche parole che Mattia, un altro amico, riuscì a dirmi prima di mettere giù. Ero incredula, tenni lo sguardo vuoto fisso per un po’ sul libro che avevo davanti. Poi mi alzai e uscii. In un quarto d’ora ero all’ospedale. Erano tutti lì. Tutti piangevamo. Mattia riuscì a spiegarmi cosa era successo. Una fatalità. Un errore medico, che ancora una volta era costato la vita ad un ragazzo di 17 anni. E ironia della sorte Nicholas era morto proprio il giorno in cui compiva quei 17 anni. Il mio primo pensiero, come quello di tutti gli altri fu di rabbia: quell’operazione era necessaria, urgente e invece dei medici incompetenti l’avevano rimandata. Poi la nostra mente corse a Jessica. “Lei lo sa?”, chiesi a Mattia. Non rispose, abbassò lo sguardo e fece cenno di no con la testa. Ora c’era pure questo di problema: dirlo a Jessica, che lo amava più di sé stessa. E naturalmente toccava a me prendere in mano la situazione. Mi misi d’accordo con gli altri, poi uscii. Nel viaggio in autobus rimuginavo sulla questione. Mi domandavo quali parole avrei potuto usare, immaginavo la reazione di Jessica alla terribile notizia. Quando arrivai a casa sua, lei non c’era ancora. Sua madre e sua sorella Giulia mi fecero entrare, notarono che c’era qualcosa che non andava, ma non dissero nulla. Quando Jessica arrivò era felice di vedermi. Mi disse che si sarebbe fatta una doccia veloce e poi saremmo andate assieme a trovare Nicholas. “Non vedo l’ora di vederlo”, furono le sue esatte parole. Mi mancò il coraggio, ma sapevo che più avessi aspettato, peggio sarebbe stato. Le dissi di aspettare e di sedersi, perché dovevo dirle una cosa importante. L’espressione sul suo volto cambiò, ma non riuscii a decifrarla. Sembrava quasi che sapesse cosa stavo per dirle. Quando pronunciai le parole che annunciavano la cattiva notizia svenne. Sua madre si portò la mano alla bocca come per impedirsi di urlare. Facemmo rinvenire Jessica e fu l’inizio di un incubo durato quasi un anno.
Dopo il funerale, quando la scomparsa di Nicholas divenne sempre più reale, Jessica cominciò a rifiutarsi di mangiare e di uscire di casa, creando ulteriori danni alla situazione economica già precaria della sua famiglia. Nel giro di due settimane Jessica perse quasi 15 chili. Cominciava a dare segni di instabilità non solo emotiva, ma anche psicologica. Non poteva essere lasciata sola. Sua madre rimaneva a casa il mattino con lei, mentre il pomeriggio, andavo io a farle compagnia, parlarle un po’. Ero l’unica persona con cui ogni tanto scambiava qualche parole. Molto presto però la situazione cominciò a diventare insostenibile. Jessica tentò il suicidio due volte; a questo punto nella primavera del 2008 fu portata a Milano, in un centro psichiatrico, dove rimase chiusa in una stanza di 4 metri quadrati per circa tre mesi. Me ne vergogno, ma in questo periodo andai a trovarla solo tre volte. Non avevo il coraggio di vederla in quelle condizioni: così magra, col viso scavato, mentre in preda alla rabbia correva per la stanza, andando volontariamente a sbattere contro le pareti e il letto, come se fosse stata un animale in gabbia, e un attimo dopo si fermva, la rabbia si trasformava in tristezza, in lacrime diventavano più copiose, si lasciava cadere, si metteva seduta sul pavimento o sul letto e cominciava a dondolare, avanti e indietro, avanti e indietro, come quell’altalena su cui amava stare la sera. Le braccia incrociate, strette sul seno, le ginocchia quasi contro il mento.
Finalmente dopo tre mesi uscì da lì e ritornò a casa. Le ci volle un po’ di tempo, ma quei tre mesi sembravano averle fatto davvero bene. Aveva ripreso a mangiare, anche se poco; ogni tanto mi chiedeva di uscire. Non aveva più accennato al suicidio, né aveva più provato a fare un gesto simile. C’era solo qualche piccolo episodio di autolesionismo, ma anche parlare di Nicholas sembrava non le facesse più tanto male. Sembrava…
Mancava un mese all’anniversario della morte di Nicholas; erano le 8 di sera quando Giulia, la sorella di Jessica mi chiamò. Jessica era morta. Ce l’aveva fatta. Aveva fatto credere a tutti di essere guarita, di stare bene e ora si era uccisa. Fu come se mi fosse crollato il mondo addosso: sentii come se Jessica avesse tradito la nostra amicizia, mi sentii in colpa per non averla aiutata abbastanza. Dopo il funerale andai a casa sua per aiutare sua madre. Il giorno dopo feci un po’ di ordine tra le cose di Jessica: trovai le sue poesie, i suoi racconti e tutti i cd che ascoltava mentre ballava. Uno lo conservo io. Mentre sistemavo venne da me sua sorella: “Questa è per te”, mi disse dandomi in mano una busta bianca. “L’aveva accanto quando l’abbiamo trovata”. Era una lettera. Mi ringraziava di tutto quello che avevo fatto per lei e mi chiedeva di non essere arrabbiata per il suo gesto. Mi supplicava di non lasciare che lei morisse per sempre. Mi girano ancora nella mente le sue parole: “Finchè voi vi ricorderete di me, io sarò viva”. Mi diceva di non sentirmi in colpa: “Hai fatto tutto quello che hai potuto, e ti ringrazio per questo. Sei l’amica più preziosa che avessi mai avuto o sperato di avere.”
È passato più di un anno anche dalla morte di Jessica e in questo anno la mia vita è cambiata molto. Direi che ora è più felice di come non lo fosse prima. Ma continuo a pormi tante domande: E se Nicholas fosse vivo, sarebbe a Trento ora? Sarebbe riuscito a guadagnarsi la stima del padre? E se Jessica fosse viva, come sarebbe la sua vita ora? Sarebbe viva? E se quel suo ennesimo tentativo di morte non fosse riuscito come desiderava, cosa penserebbe adesso di quel gesto? La penserebbe come la penso io per me stessa: “Per fortuna che c’è stato qualcuno che mi ha salvato la vita!” oppure penserebbe: “Perché non mi lasciate morire in pace?”? Ci sono tanti se, tante ma, tanti perché che non hanno e non avranno mai risposta.
Dalla loro morte la vita di tutti è cambiata: i genitori di Nicholas si sono resi conto di quanto loro figlio valesse, di quanto fosse importante e prezioso, di quanto deve aver sofferto per la loro mancanza di affetto; la madre di Jessica è morta di infarto dopo solo un mese dal funerale della figlia: ora Giulia, che a sua volta un paio di mesi fa è diventata mamma, e sua padre vivono a Torino, lontano dalla casa in cui si sono consumate due tragedie; e noi, amici di Nicholas e Jessica continuiamo le nostre vite, consapevoli di quanto l’esistenza sia come un soffio di vento, ancora distrutti interiormente da due scomparse così improvvise, mentre quei due ragazzi continuano a mancarci. Non siamo più usciti tra di noi: ci abbiamo provato, ma l’atmosfera era troppo tesa e fredda. Due vite spezzate continuano a mancare nella vita di chi rimane.
Non ho più visto né i genitori di Nicholas né la famiglia di Jessica, che comunque sento ogni tanto per telefono. Vado tutte le settimane al cimitero: lascio un saluto a Nicholas, cambio i fiori sulla lapide di Jessica. E mi domanda: “E se ora fossero davvero felici?”. Guardo le loro lapidi: sembra un gioco del destino, ma le loro tombe sono solo a pochi metri di distanza. Non credo in una vita dopo la morte, ma continuo a sentire la loro presenza nella mia vita. Loro continuano ad esistere attraverso le fotografie, le loro poesie, i loro racconti e i miei ricordi. Li considero i miei angeli custodi.
Non so perché improvvisamente abbia voluto scrivere di loro, forse perché questa mattina sono andata a trovarli. O forse perché penso che possano vedermi e sentirmi e c’è una cosa che vorrei dire loro: “Grazie per esserci stati, grazie per continuare ad esistere. Vi voglio bene,e vi prometto che non vi lascerò mai morire!”