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Autore Topic: LA TESTA DI TORO - RACCONTO GIALLO  (Letto 1327 volte)

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LA TESTA DI TORO - RACCONTO GIALLO
« il: 21 Maggio 2010, 14:56:05 pm »
LA TESTA DI TORO




L’ultimo portone si chiuse alle spalle di Giorgio Bassani con un tonfo metallico. L’aria aperta fu un colpo violento al suo naso che ormai da tre anni era abituato al tanfo rancido della prigione di Regina Coeli. Solo un attimo di smarrimento sembrò sorprenderlo, poi a passi più decisi si diresse verso la libertà. Solo. Come era rimasto negli ultimi tre anni. Ripensò alla moglie e una fitta di dolore gli pervase il petto, immediatamente sostituita da una gran rabbia.
Via della Lungara era silenziosa. Faceva particolarmente freddo e pioveva a dirotto. Nessuno sembrava avere intenzione di mettere piede fuori di casa quella mattina d’inverno. I suoi passi sembravano quasi ridondare sulle mura antiche. Prese il vicolo alla sua destra, diretto alla fermata dell’autobus.
D’un tratto si voltò, come se avesse udito dei passi nelle pozze d’acqua dietro di sé. Ma non vide nessuno. Solo la strada deserta piena di buste e fogli impazziti nel turbine. Forse era stato solo il vento. O forse erano stati quegli anni di prigione a renderlo paranoico. Anni passati a guardarsi le spalle per difendersi dalle prepotenze. Lui che in una cella non ci aveva mai messo piede.
Tornò a camminare per il vicolo, spinto dal vento, e arrivò all’altezza di una fontanella. L’acqua non riusciva a stare ferma, ma ugualmente si accostò e bevve avidamente. Era gelata e provò un forte dolore alla testa. Non appena si fu rialzato si asciugò per istinto con la manica del cappotto il mento bagnato, dimenticando che la pioggia lo aveva bagnato completamente. Ed era una sensazione bellissima.
Poi accadde tutto in un attimo. Non ebbe neanche il tempo di accorgersi se non dal dolore che una mano veloce gli aveva infilato un coltello nel fianco destro, mentre un’altra gli teneva tappata la bocca. Il grido fu comunque strozzato quando un’altra coltellata impietosa gli squarciò il collo. Il sangue cominciava a uscire copioso schizzando di lato e mescolandosi alla pioggia. Stramazzò a terra senza un sussulto. Non ebbe neanche la possibilità di vedere in faccia chi gli stava togliendo la vita. Non un passo era stato ascoltato fuggire. Non un’ombra in quella fredda mattina di gennaio. Come fosse stato un fantasma a privarlo di tutto. In un ultimo sbuffo di morte finirono i pochi minuti di libertà che gli erano stati concessi.

Mancavano pochi minuti alla pausa pranzo e dalla mensa saliva un profumo reso invitante dalla fame. Il brigadiere Massirelli era già con la testa al piatto mentre scherzava con gli altri giovani sovrintendenti sulla notizia di un cane che aveva morso un uomo grasso. Quella mattina l’aria era molto distesa, e tra una battuta scontata e l’altra l’argomento si era esaurito. Aveva ancora il sorriso sulla faccia quando squillò il telefono. “ Carabinieri”, disse nel tono più solenne che gli riuscì.
“ Cadavere in via San Francesco di Sales. Mandate qualcuno”.
“ Speroni sempre belle notizie ci dai”
“ Ci vediamo sul posto fate presto”.
Il maresciallo capo Vinci era alla sua scrivania, intento a leggere il rapporto di una perquisizione. Riusciva a rimanere seduto a leggere verbali per giornate intere senza dare alcun segno di vita. Non leggeva con grande velocità e cercava di prestare attenzione ad ogni dettaglio, di modo da non doverci più ritornare. La divisa iniziava a stargli stretta . Da quando era stato trasferito a Roma da Cagliari, due anni prima, aveva messo su qualche chilo. E da due anni a quella parte aveva l’aria più triste della caserma. Tutti sapevano perché e nessuno diceva mai una parola o faceva un riferimento a quello che era successo.
Sobbalzò lievemente quando bussarono alla porta. Con quella insistenza non poteva essere altro che Massirelli. Adorava quel ragazzo. Si era creato un rapporto di grande sintonia con lui. Sistemò con la mano i capelli neri arruffati ributtandoli indietro.
“ Avanti Massirè”
“ Che c’ha la palla de vetro marescià? Vede attraverso le porte?”, disse il giovane aprendo la porta.
“ No è che se bussi così me la sfondi questa porta una volta o l’altra. Che è successo sentiamo…”
“ Hanno trovato un cadavere in via San Francesco di Sales, proprio vicino al carcere”
Il maresciallo tornò improvvisamente serio. “ Altri dettagli?”
“ Nessuno marescià, dobbiamo recarci sul posto, ha chiamato Speroni”
“ Va bene sbrighiamoci. E’ una pessima giornata per un omicidio all’aperto. Il tempo ci darà non poco fastidio per la raccolta delle prove”.
Si alzò, prese l’impermeabile blu scuro e scesero verso l’auto.
La sirena squarciò l’insolita tranquillità in una città come Roma. Arrivò alle orecchie dei palazzi come un gelido urlo di donna. Fino al sangue mescolato alla pioggia che li attendeva a poche strade di distanza.

La pioggia continuava a cadere sulle poche persone che si erano radunate intorno al cadavere. I due carabinieri presero il vicolo a piedi. Subito si ritrovarono bagnati.
Proseguirono verso il silenzioso capannello e si fecero largo. Un altro giovane in divisa fece loro strada verso una scena agghiacciante. Erano vent’anni che Vinci era nei carabinieri, eppure ogni volta che visionava una scena del crimine con un cadavere provava una forte fitta nello stomaco. Ma era quella stessa sensibilità a renderlo diverso, così abile nella risoluzione dei crimini. Riusciva a calarsi nella mente dell’assassino, ripercorrendo le sue ultime mosse, e in quella della vittima. Nella testa alle volte la scena era perfettamente chiara. Mancava un volto. E spesso sopraggiungeva dopo poco.
“ Marescià qua è un macello. La pioggia s’è portata via ogni traccia. E c’era anche questa fontanella qua aperta, come se non bastasse”. A parlare era stato l’appuntato che era già sul posto, con un accento partenopeo difficile da nascondere.
“ Vedo Speroni vedo”. E vedeva. Vedeva un uomo riverso a terra, in una posizione innaturale supina, quasi raggomitolato. Il collo era completamente squarciato al lato destro, ormai lavato dalla pioggia dai fiumi di sangue che erano sgorgati dalla profonda ferita. Sembrava un uomo sulla cinquantina, un po’ appesantito, e con i capelli radi brizzolati. Vinci prestò attenzione alle mosse del medico legale, che era già al lavoro. Era coperto da un ombrello retto dal carabiniere che faceva coppia con Speroni, mentre altri due tenevano distante la piccola folla che si era creata.
 Le mani del medico stavano toccando la parte appena sopra l’anca destra del cadavere. In un primo momento il maresciallo non si era accorto della ferita che era stata inferta al fianco destro dell’uomo accasciato a terra. Era stata talmente pulita dalla pioggia che a prima vista non era rimasto sangue sui vestiti tagliati.
“ Cos’ha sulla tempia dottore?”, chiese indicando una grossa parte livida tra l’orecchio e la fronte.
“ E’ stata l’acqua comandante. L’acqua della fontanella che ha continuato a scorrere sulla sua pelle provocando quel livido da congelamento. Presumibilmente la vittima ha bevuto prima di essere colpita e non ha avuto neanche il tempo di chiudere il rubinetto. Lo abbiamo trovato aperto”.
“ Avete identificato la vittima?”, domandò adesso rivolto a Speroni.
“ Sì marescià. Si tratta di Bassani Giorgio. Quarantadue anni. Dalla centrale ci hanno detto che ha un precedente per rapina. Tre anni di reclusione finiti di scontare, indovinate un po’, proprio stamattina. Ovviamente qua a Regina Coeli. Qualche regolamento di conti”. Pregiudicato più assenza di altri elementi facevano pensare subito a regolamento di conti.
“ Ogni cosa a suo tempo Speroni”.
Il brigadiere non ci fece neanche caso. Era abituato ad essere contrariato dal comandante.
Vinci cominciò a seguire il proprio percorso mentale. Si estraniò, come suo solito, e si calò nella scena. Tutti sapevano che non dovevano disturbarlo per nessuna ragione in quei momenti, e si allontanarono. Vide l’uomo uscire dal carcere. Aveva imboccato il vicolo. Vedeva distintamente la pioggia cadergli addosso e la sua figura contrita per il freddo. L’uomo non aveva fretta. Passo stranamente lento per essere sotto la pioggia. Anzi, sembrava gustarla. Alle sue spalle era comparsa adesso un’altra figura. Da dove?si era creata dal nulla?sicuramente era nascosta da qualche parte nei pressi del portone del carcere. Ripercorse la stradina prestando la massima attenzione. Proprio all’imbocco vi era un grosso contenitore giallo, di quelli usati per raccogliere gli abiti vecchi. Un’ottima copertura. Sì, ora lo vedeva chiaramente uscire dal suo nascondiglio di ferro e confondere i propri passi nell’eco della pioggia sulla strada. Sembrava un fantasma. Ma non lo era. Nella sua mente pareva trattarsi di un uomo perché due coltellate del genere erano poco credibili sferrate da una mano femminile. Sì, era un uomo. I due procedevano a una ventina di metri di distanza. L’inseguitore era entrato in uno spazio lungo la strada sparendo alla vista. Soltanto allora Vinci si accorse di un portone alla propria sinistra. Una sorta di saracinesca che dava su un cortile di quelli dei vecchi borghi.
Forse qui al coperto…
Attratto come da una calamita entrò con garbo nel portone. La delicatezza era quella di un costruttore di castelli di carte. E la traccia era lì. Proprio come aveva immaginato. Impressa in calce al fango vicino al muro, appariva chiara un’impronta. Ora sapeva qualcosa del suo uomo. Prese la misura col proprio piede e vide che erano della stessa taglia. 44. Fu in quel momento che vide emergere tra i ciuffi di erba cresciuti sotto il muro vecchio una piccola sagoma nera. Si abbassò piano e con mano guantata raccolse un accendino bellissimo. Il corpo nero elegante era gemmato da una grossa testa di toro d’argento. Maestosa e minacciosa.
Rivide l’assassino. A passo silenzioso si era immediatamente nascosto nel portone. La sorte lo aveva protetto per quei primi metri ed era meglio non abusare. Non doveva esserci colluttazione. Solo un’esecuzione muta. Si era nascosto poggiando le mani sul muro e affacciandosi, mentre la scarpa marcava il fango sotto di sé. Poi aveva estratto dalla tasca il coltello facendo cadere senza accorgersene l’accendino. Adesso lo stava vedendo abbandonare il suo secondo nascondiglio, raggiungere a passi felpati ma rapidi la sua vittima, arrivargli alle spalle e affondare il coltello nel collo e poi nel fianco. O probabilmente il contrario. Sì, era più logico sferrare prima il colpo non mortale per poi finirlo.  
L’uomo della pioggia era ignaro. Gustava l’acqua fredda della fontanella. Quando un dolore intenso lo colse al fianco e poi al collo. Una mano gli aveva impedito di urlare per il dolore. Il respiro fu soffocato in fiotti di sangue e rimase nell’aria solo il rumore di un tonfo nella pioggia.
Vinci si distolse all’improvviso. Come da un incubo. E come dopo un incubo il respiro gli rimase affannato per un minuto almeno mentre la pioggia gli cadeva sul capello. Nelle orecchie aveva solo l’eco di quel tonfo in una pozza d’acqua e lo scorrere indifferente della fontana sul corpo senza vita.

Ovunque fosse andato nella vita, Marco Vinci aveva sempre attirato le simpatie di tutti. Ai tempi di Cagliari le serate in caserma si concludevano con il suo racconto di un aneddoto. Tutti i colleghi lo circondavano e come in uno show lui mimava le scene della sua storia. L’effetto era esilarante. Accentuato da quel suo radicato accento romanesco, forte di chissà quante generazioni. Ci aveva trascorso sei splendidi anni in cui la sua famiglia erano i suoi colleghi.
E a Cagliari aveva trovato l’amore. L’unico che gli avesse mai fatto venire la remota idea di sposarsi. E così era stato. Annabel era una donna meravigliosa. Lo aveva letteralmente stregato. Una di quelle donne dall’abnegazione totale. E poi era bella. Lunghi capelli neri, ricci come fili del telefono. Lentiggini sbarazzine le impolveravano simpaticamente il viso, fin sotto gli occhi grigi un po’ a mandorla. Avrebbero voluto un figlio ma non era arrivato in quei primi due anni di matrimonio. Ma ci sarebbe stato tempo. In fondo erano giovani e avevano tutta la vita davanti.
Annabel era morta due anni dopo le nozze. Marco da quel momento era cambiato. Non c’era più il sole in quegli occhi, non c’era più il sorriso a segnargli di rughe le guance. Era semplicemente morto dentro.
E quando, dopo il funerale, era tornato a casa, i suoi occhi si erano posati sull’abito da sposa sistemato con cura in un armadio, aveva preso la decisione. Doveva abbandonare quella terra. In poche settimane era nuovamente a Roma, la sua città. Pronto a dimenticare. Ma dimenticare non fu mai possibile.

Alla stazione dei carabinieri regnava un’aria afflitta. Era avvilente trovarsi di fronte a un omicidio senza una traccia decente da cui partire. Vinci attendeva informazioni sulla vittima per cercare di dare un senso a tutto.
“ Allora?novità sul conto di questo Bassani?”
“ Pare che sia sposato da sette anni con una certa Salnelli Maria. Ma i due sono separati. O meglio durante la reclusione la signora ha trovato di meglio. Dalle registrazioni delle visite al carcere pare che non sia più andata a trovarlo da un anno a questa parte. Per quanto riguarda la rapina aveva un complice, che non è mai stato preso, tale Rino Gandini. Pare ci siano dichiarazioni accusatorie dello stesso Bassani”
“ Sei stato più preciso di quanto mi aspettassi Massirè, bravo. Andiamo a parlare con la moglie allora, magari può darci qualche informazione. Per ora abbiamo zero elementi. Dove abita lo sai sì?”.
“ E che non lo so marescià? Sta all’Eur. Non abita più nella casa del marito. Convive con questo signore, Paolo Guerra, un imprenditore”.
“ Magari la signora può avere qualche informazione che ci interessa su qualche situazione antecedente la rapina. O perché no riguardante la rapina stessa. E’ un po’ tardi ma andiamoci subito lo stesso. Magari domani avremo qualcosa da cui cominciare”.

CONTINUA